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’Na tazzulella ‘e cafè: la bevanda della regina per la Chiesa era vietata

La prendiamo in piedi, seduti, a letto. ‘A tazza ‘e cafè è un rito, un culto, parte integrante della giornata tipo di un buon napoletano. Da quando Maria Carolina d’Asburgo, andata in sposa a Ferdinando IV di Borbone, ne introdusse a corte l’usanza che era già da tempo in voga a Vienna, negli eleganti e raffinati Kaffeehaus. Arrivammo ad apprezzare quella nera delizia – frutto di una pianta etiope – dal nome arabo qahwa, che vuol dire eccitante, e che in Turchia è divenuto kahve, con incolpevole ritardo. In realtà, il caffè lo conoscevamo da tempo perché i mercanti veneziani l’avevano fatto sbarcare a Napoli ancor prima della decisione di Maria Carolina d’introdurlo a corte. Ma la Chiesa, spesso esempio di oscurantismo, la ritenne bevanda del diavolo (per il suo colore nero) e la gente del popolo si convinse che portasse male. So’ cose ‘e pazz! E comunque, un grazie di cuore va a Maria Carolina, regina friccicarella e buongustaia. Perché ad un ballo di corte nella Reggia di Caserta (1771) fece servire le tazze di caffè da camerieri che indossavano cappellino e giubba bianca, i primi baristi del primo Caffè del Regno di Napoli. Dalle cucine di corte a quelle di ogni abitazione il passo fu breve.

Poiché Napoli è stata storicamente spugna, nel senso che ha assorbito ed assorbirà sempre, quanto ci viene dato dagli altri, dette naturalmente il benvenuto alla cocumella, la caffettiera inventata nel 1819 dal francese Morize. Quella che in Questi fantasmi Eduardo mostra al professore dirimpettaio nel celebre monologo, spiegandogli la variante del coppetello di carta da infilare sul becco della caffettiera. Il famoso sistema a doppio filtro.E infine nel 1900 si passò all’adozione della macchina di cui i baristi della città si dimostrarono ben presto maestri. Nacque così l’espresso napoletano, la goduria di cui beneficiamo tutti i giorni. Ed è arrivato il momento dell’estasi e del tormento. Il primo sentimento è quello che in tutta Napoli si prova sorbendo ‘a tazzulella ‘e cafè. Il secondo è quello che ci prende quando il caffè lo sorbiamo fuori. Anni fa, quando seguivo la Nazionale di calcio, prima di imboccare il cancello di Coverciano, mi fermai a Settignano.

Sembrava di vivere in un altro mondo: la piazzetta, la Casa del Popolo, l’ufficio postale senza porte blindate ed il bar. Entrai, chiesi un caffè, accostai le labbra alla tazzina ed alla mia smorfia di disgusto, il barista mi chiese: ma nun l’è bbono? È ‘na schifezza! risposi. E lui: gliene faccio un altro? ed io: p’ammore ‘e ddio. Il mio amico Lino Zaccaria fece di meglio in un bar di Helsinki che aveva insegna italiana, sostituendosi addirittura al barista gentile che gli aveva messo a disposizione la macchina. Certo, sul caffè, noi napoletani siamo capaci di perdere le abituali doti di pazienza ed ironìa. Ma che cosa volete, il caffè lo cantiamo: con “ma cu sti mode, oje Briggeta, tazza ‘e cafè parite, sotto tenite ‘o zzuccaro e ‘ncoppa amara site”; con “Ah, che bellu cafè, sulo a Napule ‘o sanno fà”. Fino ad arrivare al sociale, con Pino Daniele: “’Na tazzulella ‘e cafè e mai niente ce fanno sapé, nuje ce puzzammo ‘e famme, ‘o sanno tutte quante e invece e c’aiutà c’abboffano’e café”. Stupendo, beh, ora vado, è l’ora d’o cafè.

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