Home Cultura e Arte Cucina La gastronomia nell’età del Viceregno. Cucina e riflessioni culinarie nel 1600

La gastronomia nell’età del Viceregno. Cucina e riflessioni culinarie nel 1600

Tratto da “La minestra è maritata, ritratto storico della gastronomia meridionale (Ed. Magenes 2019) di Gennaro Avano

Nel XVII secolo, dopo un secolo di Viceregno avremo per il Meridione  una fase controversa; il cosiddetto “Siglo de Oro”  è al medesimo tempo periodo cupo e di vivide eccellenze, di sommosse popolari e di grandi vette culturali. Avremo filosofi come Telesio, Bruno, Campanella, e, al contempo, grandi miserie che conducono alla rivolta di Masaniello (1647). Le fioriture artistiche dello splendido barocco e terribili mali che falcidiano le popolazioni.

Nel 1600, mentre l’Europa vede una ripresa dell’incremento demografico la Penisola era ancora afflitta dalla terribile peste nera e a metà del secolo il Viceregno, ancora flagellato dall’epidemia mortale, vide la popolazione letteralmente decimata.

Ad aggravare la condizione interna si sovrappose la non meno catastrofica situazione economica che subì un colpo ulteriore con la perdita di quella opportunità commerciale rappresentata dai generi cerealicoli, rilevante almeno fino all’evo aragonese.

Nonostante ciò, proprio in questo evo cominciò, sommessamente, la lenta diffusione dei prodotti orticoli americani che ebbero il proprio debutto come curiosità esotiche nei manuali dei grandi scalchi, restando, per lungo tempo, articoli poco conosciuti e senza mercato. Per ben due secoli cioè la conquista delle Americhe non ebbe una seria ricaduta sul piano alimentare. I prodotti d’Oltreoceano, per lungo tempo ignorati o, più semplicemente, non ancora introdotti nel mercato locale, avranno maggior peso soltanto nel corso del secolo seguente e addirittura, per quelli oggi più noti, solo nel XIX secolo.

Intanto lontano dal Meridione, in un’Europa che salutava l’alba di un’importante ripresa, nell’ambito gastronomico si ebbero importanti svolte che partirono dal nord del Continente, determinate dalle novità concettuali introdotte dalla riforma protestante e dalla diffusione della stampa. La riforma protestante, che spingeva allo sviluppo delle culture nazionali, produsse anche sul piano dell’alimentazione una modificazione degli stili che fino ad allora avevano mantenuto una certa omogeneità in forza dalle prescrizioni della Chiesa di Roma.

Un secondo scossone all’omogeneità del gusto, si diceva, fu merito della stampa, in quanto lo sviluppo della cultura scritta e l’evoluzione delle scienze positive contribuirono al ridimensionamento della cucina galenica e della coincidenza tra cucina e medicina dietetica. Nel frangente, la letteratura gastronomica europea dell’epoca testimonia una profonda trasformazione promossa dalla Francia che affermava così il suo ruolo di nuova guida sul piano del gusto. La nouvelle cuisine francese escluse tutti i gastrotipi che avevano avuto fino ad allora rilevanza, bandendo i gusti agrodolci e le commistioni di carni e salse dolci.

Analizzando tuttavia dall’interno questa vicenda gastronomica meridionale rileviamo come essa abbia vissuto una sorta di gestazione silente che, introiettando i prodotti nuovi e rielaborando la stratificazione culturale millenaria, creò i presupposti per una «rinascenza culinaria». Il fenomeno si palesò fin da subito come stile eminentemente autoctono formando un repertorio ricchissimo che nella stagione d’oro della predominanza transalpina, nell’Ottocento, raggiunse la pienezza stilistica divenendo il carattere base della scuola italiana che si presentava al mondo come alternativa a quella d’Oltralpe. Il riemergere della scuola meridionale da un secolare silenzio si manifestò quasi subito con pienezza stilistica e autosufficienza metodologica basati su un presentissimo e indiscutibile zoccolo culturale. I presupposti di questa rinascita sono quelli rappresentati, nel 1632, da Jean Jaques Bouchard nelle pagine del suo diario  di viaggio a Napoli, sugli usi e costumi cittadini,  con un quadro  descrittivo che ci consente di raccogliere le propensioni gastronomiche popolari assenti nella manualistica culinaria meridionale dell’epoca. Una narrazione che ci raffigura per un verso la disastrosa condizione delle strutture urbane e civili ma descrive, non senza sorpresa, la bontà e la raffinatezza dei cibi popolari. Un’ inspiegabile discrasia che l’autore avrebbe forse dipanato se avesse arricchito l’esperienza gastronomica frequentando maggiormente le popolari, e sicuramente temibili, taverne cittadine, più che i pii conventi. Egli avrebbe in tal modo scoperto il fulcro di quella inspiegabile «antichità in evoluzione», cardine del rinnovamento che vagheggiamo. Ci sarebbe voluto l’occhio di un antropologo, un osservatore cioè capace di intendere la portata di quella rara condizione socio-culturale in cui sussiste una continuità tra il mondo moderno e un’«età degli eroi» (poi focalizzata dall’acuta mente di Giambattista Vico -Napoli 1668-1744- ).

In un’Europa socialmente proiettata verso la svolta industrialista, in cui si profilava l’impianto liberale che muterà di li a breve i princìpi stessi del commercio in Occidente, la taverna meridionale, e specialmente napoletana, parente prossima della popina romana, restava un frammento vivente di mondo antico nella modernità. Esperire il mondo antico vivente, un mondo cioè capace di elaborare culturalmente una via “altra” da quella intrapresa dall’Occidente modernista, era forse quello che i viaggiatori come il Bouchard, nel secolo XVII, cercavano venendo in questa parte d’Europa. L’esperienza, avvenuta in una stagione precedente l’età dell’archeologia e la normalizzazione di un Meridione che diventerà persino in voga, fu per l’Autore oggetto di grande meraviglia. Riguardo a questo testo riprendiamo la citazione che se ne fa in La cucina nella storia di Napoli: «In questo diario rimasto inedito fino alla fine del secolo scorso quando fu pubblicato con il titolo Un Parisien à Rome et a Naples en 1632, oltre alle critiche sui pessimi alberghi cittadini che lo costrinsero a prender alloggio in una cella mobiliata nel convento di S. Pietro a Majella e alla descrizione di alcune feste religiose e di un viaggio a Capri e Anacapri […] troviamo […] una lunga digressione sulla cucina cittadina dell’epoca» [ E. Lambertini, E. Volpe, A. Guizzaro, op. cit., p. 55]

Per contrasto, il quadro epocale è ulteriormente arricchito da un certo tipo di letteratura autoctona, un patrimonio documentale che, per quanto citi un’obsoleta cucina aristocratica, consente al lettore moderno di intuire quanto questo ambito fosse profondamente radicato nell’immaginario meridionale, al di là dei ricchi e prestigiosi manuali professionali, configurandosi come categoria sociologica.

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