Questa è un’ intervista di straordinaria speranza e nel contempo di cruda realtà e di estrema concretezza, rilasciatami dal dottor Fulvio Minervini, infettivologo del Policlinico Federico II e tifoso, per sua stessa ammissione, del suo lavoro, dello sport e, naturalmente del Napoli. Il dottor Minervini ha “combattuto” sul campo la sua partita, ma sarebbe più giusto definirla guerra, contro il Covid-19, in silenzio, senza passerelle e/o dibattiti televisivi con lauti gettoni di presenza, capaci solo, in molti casi, di alimentare altri dubbi e incertezze nella gente sulla reale portata e il pericolo del Coronavirus. Una partita che, dopo oltre due mesi, lentamente, sembra destinata ad essere vinta nonostante un inizio da far tremare i polsi.
“Parlare di vittoria – esordisce Minervini- è ancora prematuro, ma siamo sulla strada giusta per avviare una convivenza con il virus che non dovrebbe più coglierci impreparati. Sono stati due mesi incredibili, tremendi e stressanti sotto tutti i punti di vista. C’è stato però, mi passi il termine calcistico, un lavoro di squadra eccezionale qui al Policlinico Federico II, dove non c’era la star, il fuoriclasse ma tutti, dai medici ai portantini, ci siamo prodigati per la necessità di operare in tempi brevi ed evitare che questo nemico invisibile e sconosciuto potesse avere la meglio. Qui, poi, la situazione è stata un tantino più particolare, perché agli inizi dell’epidemia avevamo ricoverati i nostri colleghi prime vittime del contagio. È stata emergenza immediata, pochi medici e inizialmente anche poche risorse con la paura, inconsueta, rappresentata dall’ignoto di un virus non conosciuto”.
Un lavoro duro fisicamente e anche una lotta contro il tempo…
“Con turni massacranti per tutti. Si consideri che all’inizio della pandemia, peraltro, la Regioni non aveva ancora segnalato e dato indicazioni per altre strutture sanitarie sparse in Campania, per cui ci siamo trovati in trincea unitamente al “Cotugno”. Poi, nel giro di due giorni, d’intesa con la Regione, siamo stati in grado di allestire 3 reparti specifici per il Covid-19 ognuno di 6 posti letto, di cui uno di 4 posti letto creato a parte per le donne in gravidanza e le puerpere sospette di contagio e per quelle accertate”.
Nessuna tregua per quasi due mesi ed ora sembra almeno vedersi una luce in fondo al tunnel.
“Pensi che fin dall’inizio abbiamo dovuto mettere da parte, abbandonare, tutte le patologie infettive con cui da anni ci confrontiamo quotidianamente. Noi componenti del reparto di infettivologia e i colleghi della rianimazione. Oggi, per fortuna, assistiamo ad un’inversione di tendenza nei numeri di contagiati e c’è l’ orientamento per il futuro di ricoverare i nuovi casi al Cotugno o al Loreto e a riprendere la nostra normale attività sanitaria. È presto, lo ripeto, per parlare di normalità, ma il vero polso della situazione lo dà proprio il numero dei ricoveri, che in questo momento sta calando. Voglio aggiungere che in Campania siamo stati bravi, per ora, sottolineando anche il grande senso di responsabilità dimostrato dalla cittadinanza durante il lockdown”.
Bravi e qualcuno, non senza malizia, ha detto anche fortunati…
“Soprattutto bravi. La fortuna ce la siamo guadagnata tutta perché siamo stati tempestivi e concreti nel prepararci all’arrivo del Coronavirus, che da noi s’è registrato qualche giorno dopo l’esplosione del virus nelle altre regioni, Lombardia e Veneto soprattutto, nonostante le note difficoltà in termini di mezzi e risorse, riuscendo a contenere la diffusione del contagio anche quando c’ è stato il rientro di migliaia di persone dal settentrione dopo la fuga di notizia sul Dpcm che bloccava le partenze dalle zone a rischio. Molte di esse, infatti, sono partite avendo già i sintomi del virus e molte altre lo avevano ancora in incubazione”.
L’emergenza Covid-19 ha portato alla luce in modo drammatico i problemi dell’organizzazione sanitaria in Italia e soprattutto delle carenze strutturali al Sud…
“Voglio solo fornire un dato, peraltro semplice, per spiegare certe situazioni. La Germania dove il virus è esploso successivamente che da noi, poteva contare su 25.000 posti di terapia intensiva, più di quanti, complessivamente, ne avevano Italia, Spagna, Francia e Inghilterra. Non è un caso che i dati della mortalità in quel paese siano stati di gran lunga inferiori anche grazie alle misure adottate seppure per minor tempo rispetto agli altri stati citati, Italia compresa. Al Sud, poi, viviamo in eterna emergenza, sanitaria, di lavoro, di ordine pubblico. E siamo abituati, parlo di noi medici, ad affrontare le difficoltà con mezzi ridotti rispetto a zone più ricche ed attrezzate dove l’emergenza li ha colti impreparati. Noi viviamo nella tempesta e in questa circostanza tragica nessuno s’è tirato dietro a fare anche il portantino, l’infermiere, a darsi una mano anche psicologicamente per superare stanchezza, timore e disagi sia fisici che mentali. È l’aspetto nobile e positivo di quell’arte di “arrangiarsi” che molti criticano”.
Questa pandemia può essere l’occasione affinchè qualcosa cambi in meglio?
“Mi auguro che questa esperienza, con le tante tragedie umane vissute, non ci faccia trovare impreparati in futuro. Non si taglino ancora fondi alla Sanità e non si risparmi su quelli da destinare ai reparti di malattie infettive e terapia intensiva. Ricordo a quello che si diceva e scriveva nel 2009 quando esplose il virus H1-N1, la suina… Quasi le stesse parole riferite oggi al Coronavirus, sottolineando il “salto” compiuto dal virus, il passaggio dall’animale all’uomo. Un salto che di solito ci mette secoli o diverse decine d’anni perché avvenga ma che spesso le ricerche di laboratorio più “spinte” , modificando la genetica del virus, anticipano di molto. Ecco perché non bisogna farsi trovare impreparati già nell’immediato futuro”.
E il dottor Minervini tifoso come vede questo “virus” anche politico che sta minacciando la ripartenza del calcio?
“Sono ottimista per natura e vedo sempre il bicchiere mezzo pieno. Credo che la ripresa, e parlo in termini globali per l’Italia, seppure gradualmente ci sarà tenendo ben alta l’attenzione da parte di tutti. Perché è possibile che ci saranno ancora focolai “spot” dove il virus può circolare, ma l’importante sarà individuarli e circoscriverli subito perché è chiaro che la salute deve essere il bene primario da salvaguardare. In questo contesto anche il calcio necessita di una ripresa graduale per riprendere quel ruolo di momento di svago che aiuti a riportare alla normalità”.
Se ne sente la mancanza?
“Onestamente, in piena emergenza non c’era spazio per parlarne o pensarci. E credo che sia stato così per milioni di italiani tifosi. Direi che c’è stata come una sorta di disintossicazione dal calcio inteso come fenomeno, cioè tutto quello che ruota attorno al mondo del calcio. Da tifoso credo sia mancato un po’ a tutti. Se, come sembra, il campionato ripartirà il 13 giugno, sono abbastanza consapevole che ripartirebbe soprattutto per evitare al sistema di collassare, considerato anche quello che il calcio significa economicamente per tutto lo sport nazionale. In campo, quindi, scenderebbero solo gli interessi economici per salvaguardare l’ultima rata di diritti televisivi e non i valori sportivi e tecnici che, dopo due mesi di interruzione di allenamenti e gare, non saranno di sicuro quelli veri. Basti pensare ai tanti calciatori colpiti dal Coronavirus”.
Vede dei pericoli in tal senso ?
“Sotto il profilo infettivologico non vedo particolari problemi per i giocatori, perché si tratta di atleti giovani, forti, allenati e privi di altre patologie. Però credo che sia giusto per la loro salute e per il loro lavoro che ci siano protocolli rigidi e rigorosi durante lo svolgersi del torneo. Non dimentichiamo che il giocatore, in quanto tale, non corre seri rischi di contagio, ma in quanto cittadino è inserito in un contesto collettivo che può creare possibilità di entrare in contatto con il virus a sua insaputa. Ecco perché bisogna tener conto delle direttive impartite dal Cts che ha modificato il primo protocollo presentato dalla Federcalcio. Mi auguro che il campionato riparta e si concluda senza intoppi perché vorrà dire che realmente ci si avvia verso una normalità che comunque non sarà mai quella che vivevamo prima del Covid-19. Per quanto riguarda il calcio viene solo da chiedermi: Ma sarà poi davvero “regolare” una stagione conclusa dopo quattro mesi di battaglia contro un nemico invisibile?”.
Già, sono tanti i tifosi che se lo chiedono e avrebbero preferito chiudere il discorso campionato già a marzo. Per rispetto delle vittime ed anche dello spirito dello sport che è gioia, comunione, divertimento. Ma lo show-business non ammette soste, soprattutto quando è in ballo il dio denaro su tutto!