di Silvana Lautieri*
La tendenza dell’uomo ad appartenere al gruppo sociale, attraverso l’istinto di aggregazione, sarebbe stata ereditata dagli animali: un gesto di omologazione apparentemente naturale ma che sovrastrutture culturali, nel tempo, spiegano come voglia di sperimentarsi, come desiderio di autostima, infine come semplice emulazione. Queste, oggi, tra le tante motivazioni a “fare gruppo”.
A creare antinomia, contrasto, però, due direttrici di marcia contrastanti: il desiderio di cambiare da un lato, la tendenza ad uniformarsi dall’altra. Un piccolo conflitto che in fase adolescenziale, o preadolescenziale, non viene recepito come disagio ma come naturale pausa di riflessione per avviare un consapevole passaggio da una fase all’altra del proprio iter esistenziale.
È, però nel post-moderno che, secondo Zigmunt Bauman, mode “ammiccanti” alimentano quel “capitalismo parassitario”, che scioglie il senso della convivenza: non più relazioni umane ma omogeneizzazione delle persone che distrugge legami, elimina connessioni. Una società liquida che ha perso il senso della comunione delle anime, una società di profitti, che rende tutti uniformi nella lotta tra il più potente ed il più debole.
Nel culto del consenso universale sembra venga esiliato tutto ciò che rende bello l’esistere: il buono, il giusto, il vero. E si dà spazio “all’usa, consuma, elimina” a tempo di velocizzazione-record.
Confinato in zona grigia l’esigenza di quei momenti di solitudine necessari a raccogliere pensieri, riflessioni atti ad acquisire coscienza e consapevolezza dei propri autentici desiderata che rendono più gratificante ed appagante il proprio “esserci“ in qualsiasi normale comunicazione.
Una comunicazione che oggi risulta spesso urlata, mai pacificata dall’intento di voler comprendere per riconoscersi protagonisti e fruitori di un comune destino.
Siamo noi gli alieni? Siamo noi gli abitanti di una Babele urlante ove l’unica corda tesa mira alla sopraffazione, non certo alla composizione di contrastanti e diverse visioni di quel mondo che ci appartiene e nel quale siamo “calati”?
Sembrerebbe proprio così se una necessaria riconsiderazione del nostro “modus vivendi “non ci restituisce la possibilità di considerarci di nuovo esseri umani .
*Presidente Centro studi Enric Fromm