Il sipario della guerra in Ucraina pare aprirsi a più preoccupanti scenari. La scontata rielezione alla presidenza della Cina di Xi Jinping e gli avvertimenti dell’Intelligence a Joe Biden sui rapporti vieppiù stretti tra Mosca e Pechino, si sommano alla stanchezza che s’allarga nelle opinioni pubbliche americana ed europea verso un conflitto che non presenta spiragli seri di negoziato ma derive spettrali – sullo sfondo di un’economia altalenante e di un riarmo quasi globale – di scontro fra le massime potenze militari del pianeta.
Lo scaricabarile – via media e Intelligence – tra Washington e Kiev sulle responsabilità dell’attentato al gasdotto Nord Stream (come degli ultimi in territorio russo e quelli contro il ponte Kerch di Crimea a ottobre e contro Aleksandr Dugin e la figlia Darja ad agosto) riflette lo scaricabarile nella stessa capitale ucraina tra la cerchia del presidente Volodymyr Zelensky e quella dei suoi alleati per necessità; coinvolge settori delle forze armate e della galassia di milizie parallele, realmente o strumentalmente autonome; s’accompagna alla eco degli scandalosi casi di corruzione che offendono i sacrifici dei civili e il coraggio dei combattenti.
L’Assemblea Nazionale, il parlamento cinese, ha rieletto Xi Jinping per la terza volta capo dello Stato, rispettando con zelo l’esempio del Partito comunista che a ottobre l’aveva riconfermato segretario, carica che s’accompagna a quella di capo della Commissione militare centrale (CMC) del partito stesso. Con la presidenza, Xi riottiene anche quella della Commissione militare centrale dell’Assemblea. Il presidente-segretario è, insomma, anche il comandante massimo delle forze armate. Mao Tse Tung (o Ze Dong con diversa traslitterazione) sottolineava che “il potere politico nasce dalla canna del fucile”: un insegnamento diligentemente seguito. Nuovo primo ministro Li Qiang, da tempo fidatissimo collaboratore di Xi, come il nuovo ministro degli Esteri, Qin Gang, ultimo ambasciatore a Washington, cioè nella capitale della nuova ”altra superpotenza” rivale o nemica a seconda dei momenti.
Xi accentrerà nelle sue mani un potere che promette, all’esterno, una ulteriore proiezione verso Asia e Africa e, all’interno, un maggiore controllo sull’economia e la finanza, nonché un’accentuata repressione del dissenso a garanzia dell’unità della nazione Han a fronte di ogni pur timido – e in verità poco o punto probabile – sussulto separatista nello Xinjiang (l’ex Turkestan orientale islamico ingoiato come “Nuova frontiera“ dal Celeste Impero, dove un milione di uiguri frequenta campi di rieducazione, nei quali i plotoni d’esecuzione alleggeriscono e i lavori forzati compensano le… spese di mantenimento).
Nel suo discorso d’addio di domenica scorsa, l’ex premier Li Keqiang ha prospettato per la Cina una crescita del Pil (prodotto interno lordo) del 5% che riscatterebbe la previsione errata dello scorso anno (da un ottimistico 5,5% scesa al 3%). Previsioni a parte, di certo c’è che per il terzo anno consecutivo la spesa militare aumenterà fino al 7,2% del bilancio statale attestandosi a poco meno di 225 miliardi di euro, livello intenzionalmente sottostimato. Gli analisti più attenti – escludendo l’ipotesi di fuoco nucleare – stimano che Pechino tra cinque anni potrebbe già contare su una forza militare convenzionale tale da sconsigliare Washington da uno scontro per i danni che subirebbero gli Stati Uniti. Washington, tuttavia, non lo esclude, nel caso Pechino decidesse una riconquista armata di Taiwan (il ricongiungimento alla madrepatria è stato da Xi programmato entro il 2050, centenario della fondazione della Repubblica popolare).
La partita USA-Cina sull’Indo-Pacifico, di cui l’Ucraina è il teatro di confronto attualmente più importante, registra la chiusura del sipario sulle illusorie speranze di riavvicinamento suscitate dall’incontro al G20 di Bali tra Biden e Xi; i piani straordinari di riarmo delle grandi e medie potenze; e la visita tra meno di un mese del presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, negli Stati Uniti. Significative le soste che ad aprile segneranno il suo viaggio: a New York – dove potrebbe incontrare l’ex speaker della Camera, Nancy Pelosi (che chiuse il suo mandato con un viaggio a Taipei provocatorio verso Pechino) ed altri esponenti Dem – e a Los Angeles, accolta dal nuovo speaker della Camera, ora a maggioranza repubblicana, Kevin McCarty. Una sola cosa vede negli USA schierati fianco a fianco repubblicani e democratici ed è il “containment” : teorizzato, all’indomani della seconda guerra mondiale, da George Kennan per il presidente Harry Truman al fine di “contenere” l’espansionismo dell’Unione Sovietica, è con Trump e Biden alla Casa Bianca in graduale applicazione nei confronti della Cina, considerato il clamoroso fallimento del progetto di Bill Clinton di democratizzarla attraverso la partecipazione alla globalizzazione commerciale.
Xi Jinping, però, non poteva ricevere da Biden un regalo migliore: il distacco della Russia, con le sue riserve di energia, dalla famiglia europea a causa del conflitto in Ucraina e l’abbraccio per necessità alla Cina. Su 50 miliardi di dollari in forniture militari finora giunti a Kiev, 30 provengono dagli USA. I depositi d’armi e munizioni occidentali sono ormai ai minimi livelli e aumentano gli stanziamenti per la Difesa. In Europa – dove la percentuale fissata al 2% del bilancio statale per le forze armate è restato, salvo eccezioni, un obiettivo solo agognato – le spese militari si moltiplicano. In Polonia (che ha una storia caratterizzata dai conflitti con la Russia ed è fortemente solidale con il governo di Kiev) la previsione di spesa per la Difesa vola addirittura verso il 4%: il governo guidato da Mateusz Morawiecki punta all’esercito più numeroso dell’UE (300mila soldati a fronte dei 200mila della Francia) e si prepara all’arrivo di 96 elicotteri Apache, 48 F-16 da aggiungere a 32-F35 ed a 48 FA-50 sudcoreani, 2 navi svedesi per guerra elettronica, 200 cannoni semoventi, ecc ecc . In Germania il governo ha invertito una consolidata tendenza alla prudenza, impegnandosi a spendere ben 200 miliardi di euro per le forze armate. La Francia, l’unica potenza del Vecchio Continente con una forza nucleare di produzione nazionale (la Gran Bretagna l’acquista negli USA), cerca di mantenere il passo e bilanciare il peso che Washington sta assegnando alla fascia dei Paesi europei centro-settentrionali. Questo, mentre tutti gli altri, Italia compresa, puntano a raggiungere, se non a superare, la soglia fatidica del 2% in bilancio. Nel resto del pianeta, dall’India all’Asia, allo stesso Sud Africa, è corsa a rafforzarsi. In India il bilancio della Difesa sfiora quello della Cina: Nuova Delhi nasconde malamente la diffidenza verso il riavvicinamento tra Mosca e Pechino e non guarda più unicamente alla Russia per le forniture d’armi.
Le fabbriche belliche statunitensi già lavorano a pieno ritmo grazie alla guerra in Ucraina ma guardando al futuro prossimo (e al debito pubblico che verrà lasciato crescere fino a 31mila e 400 miliardi di dollari) pianificano nuovi impianti e assunzioni di personale mentre aumentano le capacità produttive di munizioni (per evitare l’”empty bins”, cioè gli arsenali vuoti), di artiglieria, di missili e sistemi anti-missili, di armi-robot e combattenti-robot, di sistemi d’arma ipersonici, di ricognizione e di controllo elettronico dallo spazio, dei mezzi più moderni e tecnologicamente avanzati per Marina, Aviazione ed Esercito, con adeguati programmi di formazione per i militari… E non solo. Perché è l’intero gigantesco complesso militar-industriale, il più imponente e articolato del pianeta, che verrà ulteriormente ampliato e strutturato per dotare gli Stati Uniti della capacità di affrontare contemporaneamente due – e forse anche tre – conflitti contemporaneamente. Il Pentagono, che avrà il compito di interagire maggiormente con i ministeri della Difesa dei Paesi alleati, potrà contare su di un bilancio che dalla presidenza di Donald Trump è in crescita e che sfiora quest’anno i mille miliardi di euro! Un budget destinato nel prossimo futuro a superare il 3,2% di quest’anno. Insomma, la guerra in Ucraina ha dato il via a uno dei più ampi piani di riarmo nella storia del pianeta: nuove strategie, nuove tattiche, nuovi armamenti e nuovi generi di munizioni e nuovi combattenti-robot con intelligenze artificiali.
Il motivo: la difesa o la conquista di territori e il presidio di mari ed oceani. L’Ucraina viene da non pochi osservatori paragonata alla Spagna della guerra civile, dove si “sperimentò” il conflitto mondiale che l’avrebbe seguita. Sarebbe il caso di riproporre il mònito del presidente Richard Nixon: “Le armi nucleari hanno imposto una sorta di trattato universale di non aggressione… il compito della nostra dottrina strategica dev’essere quello di indicare alternative meno catastrofiche di un olocausto nucleare”. E aggiungere l’avvertimento del suo geniale segretario di Stato, Henry Kissinger: “La strategia militare dev’essere accompagnata da una permanente attività diplomatica, poiché il controllo degli armamenti non è meno essenziale della costruzione delle armi».
Almerico Di Meglio (Napoli, 1948), giornalista professionista dal 1981, già inviato speciale all’estero e notista di politica italiana. Vive tra Napoli, l’isola di ischia e Parigi. Ha fatto parte dal 1979 al 2009 della redazione de “Il Mattino”. Caposervizio e inviato della Redazione Esteri ha scritto da molti Paesi: dall’Europa dell’Est e dell’Ovest, divise dalla Cortina di ferro, agli Stati Uniti e al Canada, dall’America Latina all’Africa Australe e del Nord, dall’Asia centrale e segnatamente dall’ex Unione Sovietica. Successivamente ha lavorato alla Redazione Politica. E’ esperto di relazioni Est-Ovest, di questioni geopolitiche e geostrategiche. Ha pubblicato “Tra le rovine dell’impero sovietico (Università Popolare di Torino editore, 2015).