Home Calcio Napoli Dammi tre parole: il focus sulla settimana azzurra…

Dammi tre parole: il focus sulla settimana azzurra…

Già normalmente è dura digerire una sconfitta, farlo per la seconda volta consecutiva alla vigilia della sosta-nazionali con la consapevolezza che dovrai sorbirti per altri quindici giorni il devastante stillicidio di lacrime e fiele di cui sembrano essere portatori insani amici, parenti, conoscenti, sconosciuti e alieni, ti fa venire veramente voglia di non uscire più di casa e darti al binge watching di Grey’s Anatomy fino al termine del supplizio di questo ostinato anacronismo delle competizioni per nazioni. Ma nonostante la pochissima voglia di pensare ancor più che di scrivere, dopo aver visto (peraltro questa volta live) una prova deprimente, tre parole le si riescono a rimediare anche a questo giro.

APPAGAMENTO. Ci sono quelle figure simboliche abusate, talvolta un po’ insulse, cui si ricorre per semplificare dei concetti e dei pensieri. Ce n’è una che mi sta sembrando di settimana in settimana più pertinente guardando i calciatori del Napoli. Parlo degli “occhi della tigre”, quello sguardo assassino e assatanato che è stato elemento trainante delle stagioni del Napoli vincente (non solo quello di Spalletti che ha mantenuto questa attitudine per almeno tre/quarti di campionato ma anche, seppur con meno costanza, quello di Sarri e, più a sprazzi, quello di Mazzarri). Lo scorso anno, persino l’uomo/cerbiatto Meret, pareva avere il rivolo di sangue che gli scorreva dal canino, quando stava per iniziare una partita, fosse con lo Spezia o con una rivale a strisce a caso. Osimhen si muoveva nello spazio circostante come se, di chi gli si parava davanti, non volesse lasciare neanche la carcassa agli avvoltoi. Mario Rui pareva alto due metri e quindici e pronto, con una semplice torsione del busto, a mettere KO chiunque gli occupasse la corsia di sinistra con un colpo di glande. Potrei continuare questo imbarazzante sciorinare di metafore ma ce simme capiti. Quest’anno, anche nelle partite vincenti, circola nella squadra il tasso di concentrazione di un tossico sotto acido lisergico, tanto che siamo riusciti ad essere testimoni perfino di una cagata da schiaffi del capitano, peraltro capitata non contro il Lecce, ma contro l’avversario che richiedeva il più alto tasso di applicazione possibile, il Real Madrid. Probabilmente il sospettato più accreditato per questo atteggiamento smorto, oltre ad una serie di elementi di contorno anche piuttosto consistenti (agenti stronzi, calciatori distratti dai milioni, cambi di modulo, cambi di strategia e cazzi e mazzi di variegata dimensione) è il riflesso più banale ma anche il più umano possibile: la crisi di appagamento. Provateci voi a diventare gli eroi di un popolo che schiattava in corpo da 33 anni e ricominciare d’accapo con la consapevolezza che per migliorare la propria posizione devi replicare una cosa che dodici mesi prima si considerava impossibile. La convinzione è che la squadra abbia la stessa potenzialità dello scorso anno e che non si sia trattato di over performing allora ma che si stia assistendo ad un under performing quest’anno, con un’unica differenza: sono già diventati immortali una volta. Se sei sulla vetta dell’Everest non puoi andare oltre, puoi restare dove sei finché ti tiene il fiato oppure tornare indietro. Lo ha capito e valutato perfettamente quel fottuto genio del male di Spalletti, che Dio lo abbia in gloria.

RIGETTO. Discutere la competenza di Garcia è da incompetenti, ma se si deve ragionare sulla scelta di questo specifico allenatore, quando c’è stata la necessità di cercare un nuovo chauffeur per quella macchina perfetta, probabilmente qualche soluzione differente avrebbe potuto avere un risultato migliore. Attenzione, in questo ragionamento si fa ampio uso del senno di poi e trovo che specificarlo sarebbe un obbligo morale cui dovrebbero fare ricorso tutti quelli che spalano merda da gettare addosso ai tesserati SSC Napoli che si macchiano di qualche colpa. Certo, il senno di poi è il basamento di qualsiasi analisi post-qualcosa, ma nel 99,9% dei casi lo si spaccia come dato di fatto acquisito a priori, grazie a qualche frase buttata lì in passato per puro spirito distruttivo. Ecco quindi che quegli imbecilli che alla presentazione dell’allenatore hanno detto “ch’amma fa’ cu chist’?” oggi si sentono degli analisti di lungo corso e sono assurti a grandi sostenitori del #garciaout con tanto di autocertificazione, mentre invece, nella maggior parte dei casi, non sono altro che le stesse mediocrità che si erano già cimentate in performances identiche con Mazzarri, Benitez, Sarri, Ancelotti, Gattuso e Spalletti, “cogliendoci” una volta no e una volta no con qualche rarissima eccezione di puro mazzo. Garcia, allo stato attuale sembrerebbe essere molto poco amalgamato all’ambiente. Sarà la sua attitudine tutta francese a rendersi poco simpatico agli italiani (quasi sempre per colpa degli italiani, abilissimi nella pratica della generalizzazione che rende tutto molto semplice e quasi sempre molto brutto). Sarà per qualche sua uscita iniziale nella quale ci ha tenuto a smarcarsi, con parole non esattamente diplomatiche, da un passato recente divenuto per tutti noi feticcio intoccabile, vestendo dunque i panni dello spocchioso, che già gli apparteneva per passaporto. Sarà perché ha preso due tra i simboli “sacri” del Napoli vincente, smontandoli pubblicamente con sadica voluttà. Affermare alla prima partita che Osimhen non fa bene il suo mestiere e Lobotka è troppo centrale per il gioco del Napoli, ha fatto sprofondare la soglia del “vaiacagare” già parecchio bassa nella media della tifoseria napoletana, a livelli drammatici. Aggiungici che questa tifoseria era ancora ebbra della bellezza con la quale questi due “eroi” avevano inondato i cuori di milioni di persone in tutto il mondo ed ecco il frittatone o, più appropriatamente, l’omelette.

Il Napoli ha uno squadrone. I calciatori sono fortissimi e i meccanismi perfetti non si possono replicare ma si possono sicuramente reinventare. Per farlo devi conquistarti la fiducia prima di tutto dei calciatori stessi. Se ti fai schifare dopo venti giorni che sei qui dai più rappresentativi tra loro, non dai molte speranze di riuscita al trapianto di cervello della squadra, cui la società è stata costretta per vigliaccheria del pur ancora amatissimo predecessore. La strada in salita l’hai scelta tu, ed ora rimettersi in piano sta diventando un’impresa quasi impossibile per la gioia di tutti i “ch’amma fa’ cu chist’?” che ancora una volta crederanno di essere candidabili al Pulitzer laddove al massimo potranno continuare a pulitzare le scale del condominio.

Credo sia ormai evidente che questa rubrica non si lanci in analisi tecnico tattiche ma si limiti ad analizzare, dal punto di vista del tifoso, le sensazioni che lascia addosso la partita (o le partite, se in settimana ce n’è più d’una).

PLUS. Per trovare qualche goccia di positività in questo bicchiere, oggi quasi del tutto vuoto, va sottolineato con enfasi il punto più positivo, in realtà probabilmente l’unico, della giornata. Tra le tesi preventive che ho fortemente sostenuto quando sono andati via prima Koulibaly e poi Kim, c’è quella che per il campionato italiano non è necessario affatto avere uno dei 3 migliori difensori centrali del mondo, basta tranquillamente il trentesimo. La “profezia” si è rivelata inutile con Kim perché, benedetto ragazzo, si è rivelato più forte del suo fortissimo predecessore, appoggiando sontuosamente la sua coreana uallera in testa a quelle merde che lo avevano accolto con qualcosa che andava ben oltre lo scetticismo e che ha perfino sconfinato in disprezzo con qualche punta di razzismo. Alla luce di quella figura di merda colossale, cumulativa con quella ben più grande della denigrazione di una squadra che poi si è rivelata perfetta, questa volta con Natan si è vista un po’ meno spocchia, si sono viste meno sentenze di condanna preventiva, ma lo scetticismo ha aleggiato costantemente, pronto a diventare un “me lo sentivo” da sfoderare all’abbisogna, in mancanza di un troppo imprudente “ve l’avevo detto”. E invece anche Natan sta stratificando, partita dopo partita, nonostante la depressione che lo circonda, il proprio uallerone brasiliano da sistemare accuratamente sullo scalpo di chi ne auspicava il fallimento. Già, a costo di essere ripetitivi, la sostanza di troppo del tifo per la nostra squadra, è fatta della speranza di fallimento, perché solo con quella speranza ci si può illudere che la propria mediocrità abbia un motivo per sentirsi eccellenza.

 

 

 

 

 

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