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Cosa spinge le persone ad essere cattive?

di Cinzia Rosaria Baldi *

La psicologia può spiegare perché accadono fenomeni di estrema crudeltà come le violenze nel carcere a S.M. Capua Vetere

Le atroci  violenze avvenute nel carcere a S.M. Capua Vetere lo scorso anno in pieno lock down e portate alla ribalta dopo mesi e mesi di indagini hanno  lasciato confusa e sbigottita l’opinione pubblica. Di fronte alle azione punitive violente e disumane inflitte ai detenuti dalle stesse guardie giudiziarie ognuno si è chiesto come è stata possibile  tanta crudeltà e si è posto una domanda fondamentale “Cosa spinge le persone ad essere cattive?”

Un esperimento passato alla storia

Nell’agosto del 1971, un giovane professore di psicologia dell’università di Stanford, Philip Zimbardo, cercò di rispondere a questa domanda  con un esperimento che è  passato alla storia della psicologia sociale  sotto il nome di  “Stanford Prison Experiment”, che analizza  appunto come situazioni e contesti possono a tal punto condizionare il comportamento di persone comuni, non inclini alla violenza, da indurle a compiere azioni cattive, inimmaginabili, persino a loro stessi. Per il suo studio  Zimbardo, grazie alla collaborazione di alcuni ricercatori dell’Università, mette in scena nei sotterranei del campus di Stanford un carcere simulato e  riproduce le dinamiche di una prigione arruolando  un gruppo di 24 volontari ai quali viene assegnato in modo casuale o il ruolo di prigionieri o  quello di guardie.  I volontari erano studenti che svolgevano una vita comune ed erano stati selezionati accuratamente tra quelli ritenuti  più equilibrati, maturi e privi di un passato criminale. Il famigerato esperimento doveva durare due settimane, ma  Zimbardo è costretto ad  interromperlo dopo pochi giorni perché gli  studenti universitari che  partecipavano  indossando i panni delle guardia si trasformarono in autentici aguzzini, erano diventati violenti, sadici e vessatori nei confronti dei prigionieri, mentre gli studenti che impersonavano i detenuti, dopo qualche iniziale tentativo di resistenza, diventano passive vittime delle angherie dei compagni al punto che umiliati, dimostrarono sintomi di apatia e disgregazione individuale e collettiva,  alcuni crollarono emotivamente e  devono subito essere “rilasciati” .

L’Effetto Lucifero

Il risultato dell’esperimento fu definito dallo stesso Zimbardo  “Effetto Lucifero” perché dimostra come persone essenzialmente buone, considerate ‘normali’, possono trasformarsi in mostri capaci di atti disumani. L’“Effetto Lucifero” rappresenta il male che le persone possono diventare, non il male che le persone sono. L’interesse dello studioso era stato, infatti,  analizzare le  forze psicologiche che spingono gli individui ad oltrepassare la linea che separa il bene dal male e dimostrare  che la malvagità non è determinata solo da chi siamo, ma dipende anche dalla situazione specifica in cui ci troviamo. Di qui l’importanza dei ruoli sociali nel determinare il comportamento umano: quando una persona assume un determinato ruolo in una situazione specifica, finisce per trasformarsi in quel ruolo, che diventa poi la sua stessa identità. Zimbardo, inoltre, ritiene, che la causa della trasformazione delle persone da buone a cattive sia, quindi, dovuta al sistema in cui si trovano e alla loro relazione con il potere.  Rifacendosi a Stanley Milgram (1963) ed ai suoi famosi esperimenti sull’obbedienza scaturiti dall’analisi dei crimini  nazisti: Zimbardo  ritiene che l’autorità, se vista come fattore legittimante, può far emergere il lato peggiore nelle persone.

 La psicologia può aiutare a non farsi condizionare

Nei decenni successivi, vari studiosi hanno proposto delle spiegazioni e individuato le condizioni e le situazioni che creano l’Effetto Lucifero. Fra queste condizioni troviamo la de-individuazione: ogni volta che per un individuo l’appartenenza a un gruppo è predominante, la persona non agisce più come singolo con una propria consapevolezza di sé, capace di riflette sulle proprie azioni. Nell’esperimento carcerario, le guardie formavano un gruppo coeso, indossavano la stessa uniforme e dello stesso colore ed occhiali da sole riflettenti, che impedivano il riconoscimento personale, creando la condizione perfetta per la de-individuazione. Le conclusioni a cui Zimbardo arrivò furono che i soggetti che agivano in gruppo, se si ritenevano autorizzati a comportamenti aggressivi da un’autorità superiore, si sentivano deresponsabilizzati dalle loro azioni e autorizzati a compiere atti riprovevoli, che mai avrebbero compiuto se avessero agito in maniera individuale.             Il gruppo di appartenenza, infatti,  dà la sensazione di anonimato e riduce il senso di responsabilità, comprendere questo  processo può aiutarci a capire le tante dinamiche che sottendono fenomeni abbastanza diffusi, dal  bullismo, agli stupri al terrorismo e alla tirannia.
Philip Zimbardo descrive i suoi studi  in vari saggi, ma si preoccupa anche di affrontare anche  il tema di come difendersi  dai condizionamenti e non lasciarsi influenzare, nel libro  dal titolo omonimo  “L’effetto Lucifero” (2008) analizza,infatti,  il meccanismo delle influenze sociali anche dal punto di vista del contrario, ovvero dell’eroismo, e  approfondisce il concetto di come opporsi al condizionamento sviluppando   resilienza, mantenendo la propria indipendenza di pensiero, non permettendo agli altri di de-individuarci e imparando a rispettare solo le Autorità che si possono considerare davvero ‘giuste’.
I comportamenti violenti e depravati   commessi nel carcere di S. M. Capua Vetere sono più diffusi di quanto vogliamo ammettere,  l’importante è prendere coscienza che  quanto accaduto ha  leso non solo la dignità delle vittime, ma anche la dignità dei persecutori e ciò deve aiutarci  a costruire un nuovo approccio. Come molti studi hanno concluso certi meccanismi che stanno alla base dell’effetto Lucifero possono essere invertiti e usati per creare nuove strategie di riconciliazione.
* psicologa età evolutiva
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