Nove chiese a rischio sprofondamento (e altre 91 da tenere sotto controllo), avvertiva qualche giorno fa “Il “Mattino” citando uno studio universitario su rilievi satellitari relativi alle variazioni di altezza degli edifici (e dunque ai movimenti del sottosuolo). Ma le chiese abbandonate, chiuse, pericolanti , inagibili (saccheggiate o utilizzate in modo improprio o con cantieri fantasma) a Napoli, “città dalle 500 cupole”, sono molte di più. “Almeno la metà”, secondo Antonio Pariante presidente del Comitato Portosalvo impegnato da sempre in difesa del patrimonio storico artistico e monumentale della città.
Emblematico il caso del complesso dei Girolamini. Lavori per oltre 7 milioni finanziati dall’Unesco. Quattro anni perduti tra aggiudicazioni delle gare e contratti; poi nel 2017 l’apertura del cantiere ma ecco che arriva uno stop per inadeguatezza del progetto… Ed è ancora tutto fermo, perché la variante era troppo costosa (il cantiere tuttora in custodia alla ditta che avrebbe dovuto fare i lavori).
Ancora off limits (dal 1980) anche la seicentesca chiesa di Santa Maria di Vertecoeli, a due passi da largo Donnaregina: splendida facciata barocca, fronteggiata da un altro pregiato edificio storico. Nel 2017 fu restaurata la facciata per 190mila euro a spese dal Comune, proprietario dell’immobile. Ma all’interno resta uno scempio, tra soffitti che rovinano, escrementi di animali e altra sporcizia (gli oggetti sacri, rubati o vandalizzati).

E che dire della chiesa di Santa Croce al Mercato, che pure è pericolante? Hanno rifatto la piazza, con fondi Unesco (“usati materiali impropri, alterati i prospetti visivi”, accusa Pariante) ma non la chiesa…
Parecchie di queste chiese un tempo erano cappelle private, la maggior parte gestite da arciconfraternite che poi si sono estinte (la gestione dei beni delle arciconfraternite commissariate fa capo a un ufficio speciale della Curia). Pochi gli immobili che appartengono alla Curia. Alcuni sono del Comune, molti di proprietà del FEC (fondo edifici culto) che fa capo al Ministero degli Interni. “Alla luce dei patti lateranensi , il concordato Stato Chiesa del 1929”, ricorda il dottor Pariante, “tocca allo Stato la spesa per la manutenzione ordinaria e straordinaria, ma con un capitolo di bilancio teorico… Non ci sono fondi”.
E però, quando l’opportunità economica c’è, non si conclude niente. Il centro storico è stato riconosciuto dal 1995 patrimonio dell’umanità dall’Unesco, con erogazioni di risorse europee per la messa in sicurezza, restauri, ristrutturazione, riqualificazione di monumenti e strade nel perimetro dell’antico insediamento greco romano . Ma a fronte di 100 milioni disponibili per il “Grande progetto centro storico Unesco” partito con la programmazione 2007-2013 poi traslato su quella successiva, ad aprile 2019 la spesa rendicontata era di soli 15 milioni e cioè meno di un terzo. Cento milioni per interventi previsti su 27 chiese, “ma i lavori sono iniziati solo in una decina di casi e mai finiti”; in questi 26 anni, secondo Pariante, si sarebbero persi addirittura 500 milioni per tre “grandi progetti” compreso l’ultimo (sindaci Bassolino, Iervolino, De Magistris), tutti falliti…
Un’area, quella del centro storico, su cui insistono diverse normative di scala nazionale, regionale e comunale con un intreccio di responsabilità istituzionali. Da chi dipende lo stallo? Comune, Regione, Sovrintendenza, Arcidiocesi, Ministero, Provveditorato opere pubbliche; direzioni dei complessi monumentali… “A prescindere dagli amministratori che si sono succeduti”, commenta Pariante, “non c’è stata una buona gestione politica dei nostri beni culturali”. Si poteva fare meglio. Ritardi ai quali bisognerebbe porre rimedio, per non perdere anche il resto. “L’Unesco è lontana. E il Ministero dei beni culturali accentra la sua attenzione su Pompei”, riflette il presidente del Comitato Portosalvo. Ed ecco il suggerimento: “A Napoli serve un Garante per difendere il centro storico e il paesaggio dal degrado e dalle continue trasformazioni urbane/restyling che stanno alterando l’identità del territorio. Un difensore civico che raccolga tutti attorno a un tavolo, per coordinare gli interventi affinché si proceda in maniera omogenea e non più a macchia di leopardo”. Serve una visione complessiva, per salvaguardare il passato puntando al futuro.