L’obiettivo più importante dell’incontro era che l’Occidente euro-atlantico e l’Occidente euro-asiatico tornassero a parlarsi, ed è stato raggiunto. Vladimir Putin ha ricevuto a Sochi il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e già significativo è stato che s’incontrassero i leader odierni di due imperi storicamente avversari. Mosca, la Terza Roma, che invano rese la Crimea il trampolino di lancio per la riconquista cristiana della Seconda Roma – Costantinopoli, Bisanzio, Istanbul –, ed Ankara, la capitale scelta dal modernista Ataturk, il quale immaginò che dal sepolcro dell’impero ottomano si edificasse un futuro di comprensione e collaborazione tra le due sponde del Mar Nero e del Mediterraneo. Le cose non sono andate proprio così. Eppure, la Turchia, con un piede nell’Unione Europea ed entrambi nella Nato, fino al 1991 baluardo antisovietico, è oggi il ‘checkpoint Charlie’ tra i combattenti in Ucraina: offre sponde negoziali a Mosca pur fornendo droni sia al regime di Kiev, sia all’esercito dell’Azerbaijan impegnato contro gli armeni cristiani del Nagorno-Karabakh difesi dai russi.
Al centro dei colloqui, la ripresa delle forniture di grano e in cambio l’allentamento di alcune delle fortissime sanzioni che – assieme all’arbitrario sequestro dei beni all’estero e di circa 400 miliardi di dollari russi su banche occidentali – colpiscono la Federazione. Di là dal grano, per quanto concerne il conflitto si capirà solo nel prossimo futuro se il vertice a Sochi farà registrare un passo avanti verso l’obiettivo di un armistizio alla coreana che – come hanno da tempo indicato i più accreditati esperti di strategia globale – congeli una situazione di fatto. Una spartizione non su un parallelo sperimentato bensì lungo confini più o meno interetnici, che assicurino Crimea e parte delle regioni russofone a Mosca e garanzie occidentali di sicurezza a Kiev (purché eviti – per iscritto e non verbalmente come avvenne con Gorbaciov sul non ampliamento della Nato – l’installazione di missili nucleari e forze convenzionali con capacità d’attacco penetrativo ai confini). Tra un mese lo scenario diplomatico-strategico vedrà Putin accolto da Xi Jinping (il quale non parteciperà al G20 in India tra qualche giorno). Il summit a Pechino riveste notevole importanza, considerando l’approssimarsi dell’anno elettorale negli Stati Uniti e la necessità per Joe Biden di presentarsi all’America con un bilancio di politica estera che non si riduca al vergognoso ritiro dall’Afghanistan, al conflitto incancrenito in Ucraina, alla Cina proiettata sui mari e nello spazio a dispetto del ridimensionamento economico, a un inaspettatissimo ampliamento della Nato costato però il “regalo” alla Cina della Russia, ch’è troppo estesa per mantenere adeguate forze convenzionali ma resta la massima superpotenza nucleare del pianeta.
Il presidente americano ha offerto al regime di Kiev un altro sostanzioso pacco di miliardi, ha concesso – via alleati della Nato – i micidiali aerei F16 e si appresta a fornire i proiettili all’uranio impoverito che nell’ultimo quarto di secolo, dai bombardamenti sulla Serbia in poi, hanno mietuto centinaia di vittime – forse nel tempo migliaia – non solo tra i nemici ma anche tra le file delle stesse forze occidentali. Punta, Biden, a un negoziato con Mosca da posizione di forza, cioè con la riconquista di territorio da parte di Kiev. Ma la dice lunga l’ennesimo repulisti a Kiev, con la sostituzione addirittura del ministro della Difesa dopo i ripetuti scandali e la controffensiva da minimi termini. Indicativo che negli Stati Uniti l’intervista di Tucker Carlson a Viktor Orban abbia raccolto ben centoventicinque milioni di visualizzazioni sui social (in Italia neppure una notizia): il primo ministro ungherese, che non scodinzola per una foto ricordo alla Casa Bianca, ha affermato che certamente crederebbe alla fine del conflitto se… Donald Trump fosse rieletto. Pochi giorni prima a congedarsi politicamente dall’inquilino della Casa Bianca s’era aggiunto pure Oliver Stone, il noto regista ed esponente della corrente più ‘liberal’ – che in America significa più a sinistra – del Partito democratico. “Ci sta portando di filato verso una guerra nucleare con la Russia”, ha accusato. E’ la stessa ragione che ha spinto la destra del Partito repubblicano a stringersi nuovamente attorno a Donald Trump, che vola col 60% nelle primarie Rep, smentendo la tradizione che negli USA vede i perdenti ritrovarsi senza più amici né voti. Biden è convinto di riuscire a coagulare i moderati neri e bianchi democratico e repubblicani. Il voto è troppo lontano per azzardare previsioni. Nei sondaggi Trump è risalito fino a tallonare Biden (rispettivamente 43,1% e 44,5%), ma più indicativo è il dato relativo all’approvazione dell’operato del presidente, crollato al 41,6% (col 52,8% che lo giudica negativamente). La foto segnaletica ha regalato a Trump altri simpatizzanti e milioni di dollari per la campagna elettorale del 2024 (ch’è anno di votazioni cruciali un po’ dappertutto, dall’America alla Russia). Splende nell’emisfero repubblicano USA anche la stella di Vivek Ramaswamy, 38enne d’origini indiane, il quale, dopo una laurea in biotecnologie ad Harvard, ha deciso di… divenire milionario e – chissà se sull’esempio del sindaco londinese d’origine indiana Sadiq Khan – s’è dato alla politica puntando in alto. Fosse, Trump, impedito a presentarsi, sarebbe il più trumpiano dei candidati a succedergli.
La controffensiva è stata finora un sostanziale fallimento mascherato da avanzate di qualche chilometro appena. Volodymyr Zelensky ora teme che possa franare il terreno sotto i suoi piedi e tenta di correre ai ripari. Promette all’interno dell’Ucraina democrazia, con la fine della legge marziale, elezioni generali il prossimo anno e lotta ma sul serio alla corruzione. Promette, all’esterno, spiragli di negoziato (seppure puntualmente smentiti l’indomani). Promette, insomma, di chiudere le porte sia del carcere, che ha ingoiato oppositori e dissidenti; sia dei cimiteri che hanno digerito centinaia di migliaia di vittime. Il Paese è devastato, le città come le ultime antiche foreste del Vecchio Continente. Metà degli abitanti riparata o fuggita all’estero. La controffensiva si nutre di propaganda mentre in Europa montano dubbi e insofferenza per un conflitto che spreca, direttamente e indirettamente, centinaia di miliardi di euro e che prospetta vendette nelle urne. Una guerra che s’è malamente inserita nella sfida dell’Indo-Pacifico tra Occidente ed Oriente e che vede il baricentro della Nato muoversi dal suo ancoraggio occidentale Parigi-Berlino verso l’approdo centrorientale Londra-Varsavia-Kiev e, pertanto, conta un nemico in più, Mosca, che s’era dal 1991 ritrovata amica nella stessa “casa comune europea”.
Ironia del destino, Zelensky apprende dai media americani che Biden, mentre lo arma, lo spingerebbe a più miti consigli. Un boccone certo duro da ingoiare: fu proprio il capo della Casa Bianca a spingerlo alla guerra un anno e mezzo fa. Una ricostruzione non smentibile di come andarono le cose un anno e mezzo fa è stata pubblicata da Ted Snider su ‘The american conservative’. Vale forse la pena ricordarla, visto ch’è passata – salvo la lodevole eccezione di ‘Piccole Note’ – inosservata. “ Il 25 febbraio scorso – scrive Snider – all’indomani dell’invasione (russa) Zelensky dichiarò d’essere pronto ad abbandonare l’idea dell’adesione dell’Ucraina alla Nato: ‘Non abbiamo paura – affermò il presidente – di parlare con la Russia, né delle garanzie di sicurezza per il nostro Stato, né della possibilità di uno Stato neutrale. Non siamo nella Nato, adesso… dobbiamo parlare della fine dell’invasione e di un cessate il fuoco’… E il suo consigliere Mykhailo Podolyak aveva confermato: ‘L’Ucraina vuole la pace ed è pronta per un negoziato con la Russia, anche sullo status neutrale in rapporto alla Nato…non abbiamo timore di negoziare anche su questo’. Il 27 febbraio, a soli tre giorni dall’inizio della guerra, Mosca e Kiev annunciavano colloqui senza pre-condizioni in Bielorussia”. Com’è noto, le delegazioni rientrarono in patria per consultazioni ma dandosi appuntamento già al 3 marzo, quando si svolse un secondo round di negoziato in Bielorussia.
Ma intanto Washington accendeva il semaforo rosso: il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price, avvertiva che “non ci sono le condizioni per una vera diplomazia”, perché l’avvio di contatti diplomatici avviene con Mosca che ha “fucili spianati e mentre razzi, mortai e artiglieria hanno nel mirino il popolo ucraino”. L’allora premier israeliano Naftali Bennet prendeva l’iniziativa – su richiesta di Zelensky – di una mediazione: prima a Mosca incontrava Vladimir Putin, poi due volte lo stesso presidente ucraino, quindi Emmanuel Macron a Parigi e a Berlino il cancelliere Olaf Scholz. Ma Biden – confermò poi Bennett – fu categorico: “non c’erano possibilità di successo”. Invece Putin s’era dichiarato pronto a ritirarsi e aveva fatto “enormi concessioni”, tra le quali la “rinuncia alla richiesta di un disarmo totale dell’Ucraina” avanzata in seguito all’espansione dell’Alleanza Atlantica ad est, avvenuta a dispetto delle promesse fatte alla Russia. Putin avrebbe permesso all’Ucraina un riarmo a garanzia della propria indipendenza, su “modello israeliano”, in cambio della non adesione alla Nato. Mosca chiese pure la smilitarizzazione del Donbass e la fine della repressione contro i russofoni. Una soluzione che Bennet assicura fu accettata da Zelensky, però “l’Occidente voleva continuare a colpire Putin”. Infatti, mentre Macron e Scholz apparvero “pragmatici”, il premier britannico “Boris Johnson assunse una posizione aggressiva”. Infatti, la sua missione del 9 aprile a Kiev fu motivata dall’avvertimento a Zelensky ch’era interesse dell’Occidente che “il conflitto prosegua”. Non a caso, ha sottolineato Ted Snider, a conferma di Bennet vennero poi i commenti al fallimento della mediazione in seguito svolta dalla Turchia, che aveva posto sul tavolo delle trattative una bozza d’intesa firmata dagli stessi negoziatori. “Ci sono Paesi all’interno della Nato che vogliono che il conflitto continui”, dichiarò il ministro degli Esteri di Ankara, Mavlut Cavusoglu. E Numan Kurtulmus, vicepresidente dell’AKP, il Partito della giustizia e dello sviluppo di Recep Tayyip Erdogan, con la Cnn non ricorse a giri di parole: “Gli Stati Uniti ritengono che la prosecuzione della guerra sia nel loro interesse”.
Almerico Di Meglio (Napoli, 1948), giornalista professionista dal 1981, già inviato speciale all’estero e notista di politica italiana. Vive tra Napoli, l’isola di ischia e Parigi. Ha fatto parte dal 1979 al 2009 della redazione de “Il Mattino”. Caposervizio e inviato della Redazione Esteri ha scritto da molti Paesi: dall’Europa dell’Est e dell’Ovest, divise dalla Cortina di ferro, agli Stati Uniti e al Canada, dall’America Latina all’Africa Australe e del Nord, dall’Asia centrale e segnatamente dall’ex Unione Sovietica. Successivamente ha lavorato alla Redazione Politica. E’ esperto di relazioni Est-Ovest, di questioni geopolitiche e geostrategiche. Ha pubblicato “Tra le rovine dell’impero sovietico (Università Popolare di Torino editore, 2015).