La seconda recensione di un classico della letteratura napoletana ha per oggetto, ovviamente, un libro straordinario, e ci ricorda, indirettamente, le consuetudini di un “Paese straordinario”. Ove la seconda “straordinarietà” non è da intendersi positivamente.
Parliamo di Ninfa plebea di Domenico Rea, libro sconvolgente, capace di rappresentare la figura femminile in modo potente, narrando una vessazione storica, considerata fino a tempi recentissimi accettabile. Lambendo certe tematiche riferibili alla violenza, in questo caso psicologica, di genere, anticipandone di quasi vent’anni la denuncia. Sono tematiche che fanno avvertire al lettore, chiunque egli sia, un risoluto sdegno nei confronti di una società biecamente fallocratica. Soprattutto la lettura muove nel pubblico la commossa partecipazione alle vicissitudini del bellissimo personaggio femminile, la cui vicenda parte da quando è bambina.
Volendo esporre un rapido disegno della trama diciamo che la storia ha inizio nel seno di una famiglia di estrazione popolare, in un paese dell’Agro Nocerino che è verosimilmente la stessa Nocera. Le relazioni sono tutte incentrate sul leitmotiv della sopravvivenza, un mondo basato sulla necessità di guadagnare per non soccombere, e pertanto anche la sessualità assume questo connotato, pur senza diventare prostituzione. L’utilizzo del sesso assume cioè fin dalle prime pagine la fisionomia di strumento preteso dagli uomini, di qualsiasi ceto e ruolo; dispensato quasi sempre con avveduta rassegnazione dalle donne, senza in esso riporre enfasi e significati elevati se non, appunto, quello di strumento per la sopravvivenza. Il sesso che assume invece senso è quello piacevolmente affettivo che sperimentano due bambine, Miluzza, la protagonista, e Nannina una sua amica. Improvvisamente però la bambina resta orfana, dapprima della madre, donna chiacchierata ma tollerata; poi del padre invalido. L’ultimo adulto che si occupa di Miluzza è il nonno paterno, il quale afflitto dalla preoccupazione si duole per la sorte della sciagurata nipote che presto si troverà in balia di un mondo spietato, senza il sostegno dei genitori. Prima di morire pertanto, pensando di fare bene, riesce a collocarla come operaia nell’azienda di un ricco possidente ma, venuto a mancare in concomitanza con l’adolescenza della nipote, tutto lascia supporre la rovina. L’industriale che ne è attratto la irretisce, la moglie di lui la aggredisce, ne consegue la condanna sociale perché, la morale comune è spietata con una miserabile, qual è Miluzza, che insidia – non volendo – l’onore di una famiglia che conta. Poi, provvidenzialmente, la guerra. Tutta la società ne è sconvolta, ogni vicenda dimenticata e Miluzza con la sua capacità di sopravvivenza sopravanza tutti fino a quando, al termine del conflitto salverà un soldato di Corbara, reduce da una perigliosa fuga di ritorno dal fronte e, col lieto fine, si sposa e vive felice. Eppure anche il finale, apparentemente banale, sottolinea sempre la brutalità del mondo maschile e lo spessore umano della donna, capace di elevare gli affetti sopra la grossolanità dell’uomo.
Ma venendo alla seconda questione, ovvero quelle consuetudini di un “Paese straordinario” cui facevamo cenno, ricordiamo che Ninfa plebea è un libro insignito del maggiore riconoscimento per la letteratura nazionale: il Premio Strega, che gli è stato attribuito nel 1993.
Ebbene qual è la sorte di un’opera che, di diritto, sta nell’olimpo dei classici? In Italia è quella di non essere più editata. Eh già.
Invito infatti il lettore a verificare sui maggiori negozi on-line se sia possibile trovare un’opera di Domenico Rea che sia successiva ai primi anni 2000. E specialmente si guardi se sia possibile trovare il succitato libro, che non sia una vecchia e malandata edizione.
Ci chiediamo allora quale sia la ragione di cotale oblio, e andiamo convincendoci che Rea non piace a certa editoria perché non risponde a ciò che del Meridione, e di Napoli, ci si aspetta. Non camorre dunque, non folklore, non “i segreti” noti che supponenti giornalisti settentrionali pretendono spiegare, a chi poi?
Diciamo allora che Domenico Rea è un autore troppo emancipato per un Paese così retrivo come il nostro, che abbisogna della stabilità dei luoghi comuni per vivere sereno. Che per esistere abbisogna della narrazione di una parte buona e una cattiva. Ben trista esistenza si è scelta un Paese così. Ma un classico è un classico, sicché capita che dove l’autore è obliato in patria vi sia abbondanza di pubblicazioni straniere che vanno da un’olandese “De nimf van Napels”, al francese “Jesus fais la lumiere”, Édition Actes Sud. Raro al punto, questo Rea che, per sbaglio, volendo comprare un altrettanto introvabile “Spaccanapoli”, sua opera prima, lo scrivente lo abbia involontariamente acquistato nell’edizione francese Verdier, ma tant’è. Pertanto chi vorrà seguire il mio suggerimento su “Ninfa plebea”, e facesse fatica a trovarlo nelle librerie di Napoli (che poi sono anche chiuse), troverà questo volume, come quello dell’autore precedente, alla Biblioteca Nazionale o in qualsiasi biblioteca comunale che sia degna di tale definizione.