L’intervista. Il prelato della Cappella del Tesoro racconta la storia del martire. Sul miracolo dice: “È il segno dell’amore di Dio”
San Gennaro, il Santo Patrono della città di Napoli e della Regione Campania, è noto in tutto il mondo per il prezioso tesoro, ma soprattutto per il prodigio della liquefazione del sangue. Da secoli i napoletani sono particolarmente legati a questo martire: c’è un inevitabile rapporto familiare, che potremmo definire un rapporto di sangue. Il partenopeo, credente o meno, praticante o non, si sente chiamato, “apparentato” alla figura di quest’uomo vissuto nel IV d.C. Il prodigio del suo sangue, che si ripete più volte durante il corso dell’anno, invita il popolo dei credenti e anche quello degli increduli a recarsi nella maestosa Cappella del Tesoro per venerare o semplicemente ammirare le famosissime ampolle. Ne abbiamo parlato con monsignor Alfonso Punzo, prelato della Cappella del Tesoro, che ci ha raccontato tante particolarità legate alla storia di questo megalomartire, importante per la Chiesa e la comunità civile.
Monsignore, chi era Gennaro?
“Un giovane vescovo rapito dall’amore verso Gesù Cristo, che lo ha seguito fino alla morte, fino a dare il sangue per il crocifisso risorto. Gennaro, vescovo di Benevento, sua città natale, volle recarsi a Pozzuoli per salutare il diacono Sossio, uomo di santa vita e stimato dal popolo, che viveva in clandestinità perché cristiano. Gennaro partecipò a una liturgia con Sossio, che però dopo un po’ fu arrestato, e per testimoniare l’amore e l’amicizia nei confronti del diacono, si dichiarò cristiano insieme al suo lettore Desiderio e al diacono Festo. Il console romano Draconzio li condannò alle fiere, la pena fu poi commutata per decapitazione avvenuta il 19 settembre del 305 d.C.”.
E del tesoro che ci dice?
“La parola tesoro intende il luogo più privato di una chiesa, un posto segreto in cui sono custoditi beni. Nel nostro caso, il tesoro di Napoli comprende il sangue del santo e i frammenti del suo cranio custoditi nel busto argenteo voluto da Carlo II d’Angiò, Re di Napoli nel 1305. Ma quello che caratterizza la Cappella del Tesoro di San Gennaro è che nacque dal cuore del popolo napoletano. Nel 1527 il popolo partenopeo viveva una grande crisi tra peste e carestia e la gente decise di recarsi da colui che riteneva più vicino a Dio: andarono da Gennaro per chiedere aiuto e protezione. Gli promise di erigere una grande Cappella, detta del Tesoro nuovo, che potesse contenere il busto con le reliquie del santo e il reliquiario del sangue. Il 13 gennaio 1527, dinanzi ad un pubblico notaio, i napoletani fecero questo voto. Fu un atto pubblico e in quel contesto nacque anche la deputazione che tuttora regge le sorti della Cappella del Tesoro di San Gennaro, mentre l’azione pastorale è affidata a un capitolo di prelati, con l’abate monsignor Vincenzo De Gregorio e il delegato apostolico che è l’arcivescovo di Napoli, il cardinale metropolita Crescenzio Sepe”. Cosa chiedono maggiormente i fedeli al Santo Patrono? “Oltre alla protezione per la città e l’intercessione presso Dio per grazie e favori personali, mi sovviene, tra le più calorose e teologicamente perfette, un’invocazione in lingua napoletana che recita cosi: San Gennà dacci a Santa fede e dalla a chi nun a tene! Si chiede, semplicemente, il dono grande della fede”.
Come si spiega il mistero della liquefazione?
“Vorrei citare un concetto del professor Gastone Lambertini, grande luminare del secolo scorso, il quale sosteneva che quel sangue vive e respira. Mentre noi abbiamo la possibilità e la capacità di comunicare con la parola, i sensi e anche la manualità, San Gennaro comunica con il suo sangue. Si rende vivo e presente attraverso il prodigio della liquefazione partecipando cosi alle gioie e ai dolori degli uomini di ogni tempo. Con questo prodigio, ci esprime la sua vicinanza”.
Perché il prodigio del sangue si ripete tre volte l’anno?
“La prima è in occasione della solennità del Santo Patrono, giorno del suo martirio il 19 settembre. La seconda, il 16 dicembre, celebra la memoria del suo patrocinio sulla città di Napoli dopo la tremenda eruzione del Vesuvio del 1631. E poi c’è il sabato che precede la prima domenica di maggio, quando si fa memoria dei vari trasferimenti delle reliquie: dalla Solfatara, luogo in cui avvenne il martirio, all’Agromarciano (una località probabilmente presso Fuorigrotta), dall’Agromarciano alle catacombe di Capodimonte, che prenderanno poi il suo nome. Dalle catacombe furono poi rapite nel IV secolo dal principe longobardo Sicone e portate a Benevento. Successivamente da Benevento all’Abbazia di Montevergine e da quest’ultima sede, poi definitivamente, al succorpo della chiesa cattedrale della città di Napoli. Si celebra una lunga processione anche con le immagini argentee dei santi compatroni, che partendo dalla cattedrale giunge attraverso le strade del centro antico, alla basilica angioina di Santa Chiara, dove il cardinale arcivescovo annuncia l’avvenuta liquefazione”.
In quelle ampolle cosa c’è?
“Una corposa documentazione scientifica realizzata il 25 settembre 1988 dichiara, anche attraverso una profonda spettroscopia, che in quelle ampolle si è trovata emoglobina con tutti i suoi componenti. Per cui, veramente in quei balsamari vitrei c’è sangue umano e noi crediamo fermamente si tratti del sangue di San Gennaro. Ciò che avviene nelle ampolle non dipende dalla volontà umana o da forze naturali, noi possiamo soltanto constatarlo. Possiamo vedere con i nostri occhi la magnificenza e la potenza dell’amore di Dio che si manifesta nel sangue vivo di San Gennaro per il popolo della città di Napoli e il mondo”.