di Silvana Lautieri*
È in “Anatomia della distruttività umana” che Erich Fromm, uno dei più grandi maestri contemporanei di scienze umane, svolge un’indagine globale delle età primitive a oggi sulle tendenze dell’uomo alla violenza distruttiva. Interessanti le due scuole di pensiero: gli istintivisti (Konrad Lorenz) che considerano responsabile la natura; per altri, come Skinner, è il condizionamento sociale a determinarne le ragioni.
Ancora: il neo-darwinismo sembra accreditare la teoria dell’egoismo dei geni (il Dna) secondo cui saremmo predisposti dalla struttura genetica a determinate reazioni.
Fromm individua nell’uomo due tipi di aggressività: una difensiva, comune a tutte le specie animali, l’altra, priva di scopi biologici o sociali, che attiene alle sue passioni: l’amore, la cupidigia, l’ambizione. E’ questa seconda ipotesi che il nostro considera essere causa della tendenza a torturare, sottomettere. Sicché sadismo, necrofilia, sarebbero le forme più espressive della sua visione della tendenza alla distruttività umana.
Non solo. Adolf Guggenbùhl–Craig, nel suo libro “I deserti dell’anima” evidenzia come ci siano luoghi psichici che sono caratterizzati da freddezza emotiva e da immoralità. Ebbene ci sembra essere quest’ultima analisi, quella più consona a spiegare l’atto di cinica indifferenza alla tutela ed alla salvaguardia di quei diritti umani negati a George Floyd, sadicamente sacrificato dal poliziotto di Minneapolis.
Razzismo per il colore scuro della pelle? No, pensiamo semplicemente a quelle lacune del senso morale che hanno accompagnato la mano dei tanti nazisti, jaidisti e di quanti in guerra, e non solo, con torture fisiche e/o psicologiche hanno dimenticato i diritti umani dei propri simili, ipocritamente chiamati , nelle occasioni d’obbligo, “fratelli”.
Siamo di fronte paesaggi vuoti, tipici dei sadici anaffettivi, la cui anima risulta disabitata da passioni pulite, oneste. Paesaggi che senza un moto di empatico sentire risultano svincolati da quei legami umani necessari a dare senso non solo al proprio cammino, ma anche a quello di tutti.
Un ripetitivo “deja- vu “che racconta della malattia di quelle anime che, prive delle ali per innalzarsi al cielo, si orientano inesorabilmente verso il più profondo degli inferni.
*Presidente Centro Studi Erich Fromm