di Cinzia Rosaria Baldi *
Ancora molti gli interrogativi sul suicidio del sedicenne in comunità
Il drammatico suicidio di Vincenzo A., all’interno della casa per minorenni di Villa di Briano, «Cento Passi», sollecita un dibattito sulla funzione delle comunità di minori come luoghi di intervento di natura educativa o sanitaria in base alle specifiche necessità del minore.
A dieci giorni di distanza la tragedia desta ancora clamore e gran dolore, diverse le reazioni, tanti gli interrogativi sulla stessa sorveglianza ed organizzazione della struttura. Fra le prime iniziative per fare chiarezza giunge anche l’interrogazione parlamentare annunciata qualche giorno fa da Edmondo Cirielli, questore alla Camera dei Deputati.
All’interno della struttura di accoglienza nel casertano e nel paese originario del ragazzo, Boscoreale, ora tutti sono sconvolti, il suicidio pesa come un macigno su tutti che si chiedono cosa si poteva fare per evitare questa drammatica morte.
Vincenzo aveva appena 16 anni, si è tolto la vita perché in comunità non ci voleva stare, domenica 7 marzo era scappato per tornare nella casa familiare a Boscoreale e partecipare al trigesimo della sorella, ma è stato riaccompagnato indietro dalla madre, che era convinta di stare facendo la cosa giusta per aiutarlo: la verità è che il suo grido d’aiuto nessuno lo ha capito. Proprio alla madre ha scritto uno struggente biglietto di addio nel quale spiegava tutto il suo disagio.
Vincenzo nella comunità si trovava dal 27 novembre, era accusato di rapina aggravata di un telefonino in concorso con altri ragazzi e sospettato di un altro reato avvenuto a Pompei ai danni di una coppietta. Il provvedimento di affidamento alla comunità di recupero, meno severo di quello normalmente intrapreso per questi tipi di reato, il carcere minorile, ha fatto emergere tutta la fragilità di Vincenzo e l’incapacità, a quanto sembra, dell’organizzazione di presa in carico.
Era un ragazzo a rischio, come tanti nel nostro Paese, che sono trattati come malviventi, quando, invece sono solo degli adolescenti a metà, dei ragazzi fragili, a cui dovrebbero essere date le stesse opportunità che spettano ad ogni ragazzo.
Ogni anno in Campania sono circa 5mila i ragazzi, tra i 12 e i 18 anni, fermati per atti di bullismo, risse, episodi di devianza, riaffidati ai genitori o condotti in comunità di recupero. Sono circa 400 ogni anno quelli che vengono inviati a comunità di recupero o che seguono percorsi rieducativi. Una realtà complessa di povertà e disagio, di mancanza di alternative e di criminalità ramificata, la gran parte dei ragazzi condotti in comunità o inviati ai carceri minorili hanno abbandonato la scuola e altri sono legati alla camorra, o alla criminalità attraverso legami familiari o amicizie.
Le cause del suicidio sono complesse e di vario tipo, spesso alla base ci sono fattori sociali e culturali, povertà educativa, economica, affettiva; la presenza di disturbi psichiatrici, una predisposizione genetica oppure l’abuso di alcol o sostanze, un precedente tentativo di suicidio alle spalle. Ci sono individui più vulnerabili che manifestano particolare fragilità quando si trovano ad affrontare momenti della vita particolarmente difficili, come può essere vivere la detenzione.
L’ingresso in comunità rappresenta un momento molto delicato, ed è in questo momento che va istaurato il rapporto con il minore, spiegandogli le ragioni per cui si trova lì in comunità e, soprattutto, esponendogli in modo comprensibile il progetto educativo che dovrà seguire, le regole che dovrà rispettare, gli eventuali divieti e gli obbiettivi da perseguire.
La privazione della libertà causa un disagio clinicamente significativo in un individuo e, in particolare se si trova alla prima esperienza detentiva, e possono emergere una vasta gamma di quadri psicopatologici come ansia, tendenza all’isolamento, sentimenti di colpa, vergogna, difficoltà di adattamento al contesto, sintomi depressivi. A luglio scorso di fronte a due nuovi suicidi in Campania in meno di 48 ore, il garante per i detenuti, Samuele Ciambriello, sottolineava il bisogno di sconfiggere l’indifferenza coinvolgendo istituzioni e parti sociali. Il tema della prevenzione dei suicidi non può essere ristretto alla riflessione e alla responsabilità solo di chi si trova a gestire il carcere. «Negli istituti di pena si concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente quelli in cui rientrano i soggetti a rischio suicidario, ovvero giovani, persone con disturbi mentali, persone socialmente isolate, con problemi relazionali, di abuso di sostanze, e con storie di precedenti comportamenti auto ed etero lesivi».
Episodi così drammatici mettono in discussione tutto il sistema che dovrebbe maggiormente essere rafforzato sul “prima” e sulle alternative di inclusione da offrire sui territori a rischio.
L’ episodio però ci induce a riflettere su come reagiamo di fronte all’ espressione di un opinione, disagio, sentimento, si tende subito a pensare che è ingiusto, stupido o anormale o irragionevole o scorretto o poco gentile invece che uno sforzo di comprensione.
Ma diamo mai agli altri mai la possibilità di capire esattamente quale sia il significato delle loro affermazioni?
*psicologa di comunità