I napoletani, più o meno, stanno reggendo bene alle nuove ferree regole imposte dal governo per tentare di debellare l’infame virus. Pensate, nella città chiusa non si sentono nella notte nemmeno gli schiamazzi delle bande di ragazzini che oltraggiano solitamente i grandi spazi della Galleria Umberto per giocare a pallone. Sopravvivono i clochard, avvolti a terra nelle coperte. Per loro, ahimé, cambia poco.
Ma c’è un vulnus, creato da queste nuove regole al quale sarà difficile rassegnarsi: la chiusura dei bar ha privato i napoletani di una abitudine consuetudinaria, è come se li avesse mutilati: dovranno fare a meno, e chissà per quanto, della tazzina di caffè, della chiacchiera al bar, di quella flebile trasgressione che ci consentiva di ritagliare un momento di socializzazione, una ritualità ormai entrata a far parte del nostro dna. Le saracinesche dei bar abbassate sono state per tutti noi, ieri mattina, un pugno nello stomaco. Quando tutto sarà finito e a questo maledetto virus chiederemo il conto, dovrà pagarci gli interessi per averci negato questa ragione di vita.