A 40 anni dal sisma si notano i soliti meccanismi dell’inefficienza italiana che hanno bloccato il piano di ricostruzione e rinascita
A distanza di 40 anni dal terremoto del 1980 ha resistito, sino a pochi mesi addietro, imperitura, una quantomeno controversa Commissione Tecnica con il compito di terminare i lavori post sisma e facente capo al Ministero dello Sviluppo Economico con costo per il contribuente sensibilmente ridotto, negli ultimi anni rispetto al secolo scorso, per merito delle polemiche che ha suscitato, ma che comunque, sino al 2018, arrivava alla cifra di 100mila euro annui, soldi non destinati a far terminare “il terremoto” ma quasi a totale appannaggio di chi la presiedeva. Ben 70 opere pubbliche ancora incomplete e che godono, la maggior parte di loro, di fondi già stanziati. Tra mille controversie e ritardi, probabilmente, due tra le più importanti, vedranno la luce, nel 2021: i ventuno chilometri mancanti per la strada a scorrimento veloce Lioni-Grottaminarda (importante arteria che servirà a collegare la Napoli-Bari alla Salerno-Reggio Calabria) e l’ultimo 10% della Pavoncelli bis (la seconda galleria che dovrebbe unire la Valle del Sele a quella dell’Ofanto, tra l’altro propedeutica a trasferire importanti risorse idriche dall’Irpina alla Puglia).
“Il miglior modo di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi”, disse un commosso Sandro Pertini, adirato contro l’inefficienza ed i ritardi. Anni sono passati e mentre, per più di trenta, le inefficienze sono state imputate al popolo dei terremotati, fermiamoci a pensare che il sisma dell’Aquila ed altre tragedie italiane sanciscono una realtà diversa: è solo il sistema-Italia che determina il “provvisorio”, costituzionalmente diventato “definitivo”. Settantamila miliardi di lire (la Commissione di controllo, nel 1991, in realtà, ne contò 51.000) equivalenti a circa 35 miliardi di euro e poi altri 17, poi altri addirittura 30, secondo i dati non proprio ufficiali ma attendibili, non hanno restituito giustizia né ai morti né hanno dato dignità ai vivi. Ma c’è di più: in questo modello di sviluppo italiano post terremoto dell’1980, la maggior parte della ricostruzione anziché far prevalere il “recupero dell’ assetto tradizionale, preferì sviluppare una ignobile modernizzazione” che snaturò, anzi che sventrò, addirittura più del sisma, quei poetici paesi-presepe producendo una vergognosa disomogeneità tra il vecchio ed il nuovo Paese.
La legge n. 219 del 14 maggio 1981 ha sicuramente ridato una casa alle circa 300mila persone sfollate (150mila furono le case danneggiate o completamente distrutte); ha sicuramente ridato infrastrutture più funzionali ai 339 comuni danneggiati, poi “magicamente” diventati 687 (542 in Campania, 131 in Basilicata, 14 in Puglia); nonostante la vergogna di vedere imprese fallire dopo essere state finanziate, ha sicuramente contribuito, con il 45% a fondo perduto, a far riaprire un’attività a quel 60% di imprenditori le cui imprese produttive furono gravemente compromesse, ma è doveroso ricordare che tutto questo è stato “festeggiato” contestualmente, nel mostro territorio, da un numero spropositato di apertura di sportelli bancari del Nord e di imprese del Nord coinvolte nella ricostruzione, in più di combine di politici importanti come De Mita, di orologi e cadeaux dati ai collaudatori affinché chiudessero un occhio, a volte anche due. Un mezzo fallimento anche la decisione di istituire, per lo sviluppo e la ricostruzione, in Campania 12 aree industriali e altre 8 in Lucania con la possibilità di vedere 8500 persone occupate. Ad oggi sono impiegate in queste aree, con diversi lotti vuoti, soltanto 3000 persone. Certo che non riusciamo a dimenticare le 2.914 vittime, i 9.000 feriti, i 18 comuni rasi al suolo, certo che ci “fa male” sapere che gli italiani per 30 anni ci hanno imputato le inadempienze, ma quello che fa più male sono soprattutto le connivenze continue tra colletti bianchi del Nord e manovalanza delinquenziale del Sud, tra chi ordina e chi esegue.
E così si seguirà lo stesso copione anche oggi se pensiamo a questi ultimi 90 milioni di euro stanziati, con delibera del 2019, in quello che appare forse l’ennesimo colpo di coda per chiudere definitivamente il capitolo del terremoto. Ma l’emorragia non si fermerà, soprattutto se pensiamo che in Italia è ancora oggi in vigore un’accisa di 75 lire (4 centesimi di €) su ogni litro di carburante acquistato, imposta dallo Stato per il finanziamento della ricostruzione dei territori colpiti dal sisma.
Perché l’Italia non cambia.