BÀNGHETE: sì, più o meno è questo il suono che nitidamente abbiamo avvertito per tre volte nel corso della lezione di calcio che è stata elargita alla nostra squadra nell’odioso orario da purpetiello alla luciana ’n copp’ ‘o stommaco. Va detto che questa locuzione “lezione di calcio” non ha per nulla la connotazione tipicamente piagnucolatoria di quando si cercano cause e responsabili per una débacle improvvisa, benché tutt’altro che imprevedibile, come quella cui abbiamo assistito. In realtà il fatto più preoccupante è proprio che non ci sono stati strafalcioni enormi né da parte dei calciatori né da parte dell’allenatore. Diciamo piuttosto che l’incastro di elementi ha fatto pensare più che altro che in condizioni standard, il gioco di Conte si sposa perfettamente con le caratteristiche dell’Atalanta. Non che questo sia completamente vero, ma la sensazione è stata questa. Per quanto sia noto che con i se e con i ma non si fa la storia, mi piacerebbe rivedere questa partita giocata con Lobotka (Gilmour è bravo ma a Lobo gli può spicciare casa, al massimo può fargli da badante al nonno) e magari con un Lookman “normale” (questa è stata di gran lunga la sua migliore partita) e credo che il rumore dei pali presi in fronte sarebbe stato meno rumoroso e meno frequente.
GASPERINI: al netto delle ipotesi in stile “if my grandmother had wheels she would have been a bike” (per citare il mio famoso concittadino Gino D’Acampo), l’Atalanta sono anni che gioca a livelli di eccellenza assoluta. A livello estetico forse il solo Napoli di Sarri è stato più divertente, di sicuro nessuno è più esaltante nel gioco e costante nei risultati tra le squadre di A dell’ultimo decennio. Quando arriva sui suoi livelli massimi forse è l’unica italiana che oggi può giocarsela contro i quattro top club europei (il PSG è uscito dal gruppo). E allora perché cazzo non si è mai avvicinata neanche a vincere uno scudetto? Dice: ma Juve, Inter e Milan (e ultimamente anche il Napoli) sono più ricche, più strutturate, più esperte, più solide. Sì, ma sono state spesso allenate da scarpàri senza senso o semplici ragionieri (ditemi che Allegri, Inzaghi, Pioli etc. sono più bravi di Gasp). Gasperini è simpatico come una bici senza sellino, ma è veramente il miglior direttore d’orchestra che c’è. Forse, vista la sua breve esperienza all’Inter, è fatto per stare lì. Si è talmente integrato all’ambiente che lo circonda che difficilmente potrebbe replicare il capolavoro che ha fatto con questa squadra. La scorsa settimana dicevo in questa rubrica che è improbabile che possa entrare a pieno titolo tra le candidate per lo scudetto perché ha già perso tre partite in dieci giornate e la media di partite perse dalle squadre scudettate negli ultimi vent’anni è di 3,3. Ciò detto e ribadito, se devo sperare in una alternativa al Napoli, credo che la vittoria dello scudetto dell’Atalanta mi darebbe una discreta goduria. E poco me ne fotte di quella banda di deficienti bergamaschi, pochi o tanti che siano, che vorrebbero che venissimo seppelliti sotto venti metri di lava vesuviana. Se provassimo tutti ad essere superiori a queste teste di cazzo, credo che gli insulti che ci becchiamo perché qualcuno di loro ha il vuoto pneumatico nella calotta cranica andrebbero diminuendo.
PARTHENOPE: ‘azzo c’entra Parthenope? Vado a spiegare: praticamente chiunque abbia un profilo Facebook, Instagram, Tik Tok o Stacépp, sta elargendo la sua personale recensione per questo film. E chi sono io per sottrarmi al mio dovere di editorialista irrilevante? Volendo parlarne appena appena un po’ più seriamente, ci sono due motivi per cui mi è venuta questa connessione: il primo è che non potevo avere un’idea migliore che prenotare per lo spettacolo delle 15,10 la visione di questo film. Se ci fossi arrivato con la pancia piena me lo sarei goduto col mio sorriso ebete sulla bocca che mi si tatua in faccia ogni volta che il Napoli vince, se invece – come accaduto – ci fosse stata la disfatta che abbiamo visto, avrei avuto un diversivo per evitare di rimurginare troppo e discendere i miei soliti dieci gradini verso l’inferno richiamando a raccolta i soliti santi e le solite madonne, come sempre accade quando le cose del Napoli vanno male. Il secondo motivo è che il film ha una pertinenza assoluta con il modo in cui è vissuto dalla città il Napoli calcio. Come accade sempre (a me) alla visione dei film di Sorrentino, esco dal cinema con la consapevolezza di aver capito poco, ma che mi sia stata innescata una batteria di trikkitrakki con bomba finale interiore, che una botticella alla volta mi farà definire il film, nel giro di qualche settimana, come qualcosa di indimenticabile. La bellezza della città esplicitata in ogni sua possibile sfaccettatura, dove perfino i bassi brulicanti di miseria hanno un fascino poetico senza essere celebrati come spesso accade per la loro essenza folkloristica, dove il compromesso con la superstizione travestita da religione e il disgusto verso la malavita vengono declinati come dati di fatto e non come prove a carico dei giudizi sbrigativi e superficiali. La leggerezza dell’essere e la gravezza del vivere ed i rispettivi contrari, espressi senza mai staccarsi da una linea narrativa che, nonostante la risaputa e ricercata lentezza dei film di Sorrentino, non sfociano mai, neanche per un frammento di secondo, in noia. Non so esattamente perché, ancora non l’ho capito bene ma vi farò sapere, ma a me viene chiaramente in mente che in questo ossimoro tra analisi iperrazionale e amore debordante verso la città, il Napoli calcio abbia un ruolo molto preciso, cosa che viene debitamente esternata nel corso del film (fatta una fatica enorme per non spoilerare). Il Napoli è parte di Napoli e dei napoletani, anche di quelli che non lo seguono e perfino di quelli che gli tifano contro. Del Napoli non si può fare a meno, e tra le tante botticelle che mi sono già esplose in corpo da quando sono uscito dal cinema questa è stata una delle prime… e m’aggio scurdato ‘o paliatòne