L’eventualità di una nuova destabilizzazione dell’impero russo ripropone la più fosca delle previsioni avanzate sulle possibili derive del conflitto in Ucraina: la guerra civile nella massima superpotenza nucleare del pianeta: seimila testate atomiche – due terzi operative, un terzo già schierate – su una selva di missili tra intercontinentali, di medio, di corto e cortissimo raggio, tattiche. Una sostituzione di Vladimir Putin nel caso l’”operazione speciale” fosse fallita o andasse troppo per le lunghe e male, era stata messa nel conto da Washington, Londra e Varsavia – che hanno portato la sfida della Nato fino alle porte di Mosca – ma sulla base di una certezza: la sostituzione di Vladimir Putin sarebbe avvenuta con un leader più docile e condiscendente attraverso un golpe di Palazzo appoggiato dai vertici militari. Su quali pilastri poggiasse questa sicumera è un mistero.
La situazione ora vede la sollevazione di un’armata mercenaria – ben 25mila unità – che ha dimostrato di saper combattere: prima in alcune regioni di Medio Oriente e Africa (Siria, Francafrique e Libia, per citare le più note) e poi nelle stesse province russofone dell’Ucraina, dove invece le truppe regolari mostravano i limiti delle forze armate russe e di quanti ne erano alla guida (impressionante la girandola di generali e vice). Solo le prossime ore, se non i giorni, ci sveleranno 1) quale sarà la reazione delle forze armate: se resteranno unite o si divideranno e in che misura e dietro chi si schiereranno; 2) quale sarà la reazione popolare, che si mostrerà favorevole verso chi sarà più convincente nel presentarsi come il comandante di cui fidarsi per salvare la Russia.
Nazionalismo e patriottismo sono la stessa cosa per la stragrande maggioranza dei russi: è la colla che mantiene la Russia. L’impero è nato tardi, a paragone di altri, e da un modesto principato. S’è dilatato in secoli di guerre e di sangue nutrite dall’angoscia dell’accerchiamento, ha perso territorio – dopo l’Alaska venduta agli USA – con la rivoluzione comunista e ancor di più col crollo dell’Unione Sovietica, ma resta immenso, centinaia le etnìe ma con due terzi dei suoi abitanti presenti nel terzo europeo del suo spazio: ecco perché è Europa, ecco perché la sua cultura è Europa, ecco perché Gorbaciov parlava di “casa comune europea” e Boris Eltsin chiedeva addirittura che la Federazione russa entrasse nella Nato e Putin denunciava il continuo allargamento della stessa Nato, che tradiva le promesse ed era inspiegabile con Mosca non più nemica dal 1991 .
Chi scrive fu testimone del fallito golpe contro Mikhail Gorbaciov, che nell’estete del 1991 accelerò il crollo dell’Unione Sovietica comunista. La destituzione del segretario del PCUS sembrò chiudere la stagione delle riforme. Peraltro, era tra le ipotesi sul tavolo delle previsioni. Lo avevo intervistato un paio di mesi prima e aveva onestamente ammesso che “il difficile comincia ora”. E invece… invece i capi della rivolta si mostrarono subito inadeguati a reggere alle svolte impresse dalla storia e a dirigerle nell’interesse nazionale. Il popolo non li seguì e neppure le truppe. Finirono dietro le sbarre o suicidi. Ma se andiamo più indietro, agli anni della prima guerra mondiale, le rivolte sfociarono in una rivoluzione che vinse e ha segnato il Novecento, con l’impero sovietico punto di riferimento ideologico per metà pianeta (benché l’unico desiderio di molti che ci vivevano fosse quello d’andarsene via).
Non si intravedono margini di una trattativa per una ricomposizione. La parole di Putin sulla sorte dei rivoltosi sono chiare: “Coloro che ci hanno pugnalato alle spalle sono dei traditori della patria impegnata in una guerra per la sua sopravvivenza… Verranno duramente puniti”. Il leader del Cremlino ha fatto di certo riferimento all’ultima sortita di Evgheny Prigozhin, che aveva spiegato l’“operazione speciale” scattata frettolosamente per la falsa previsione di un attacco ucraino alla Russia, parole che a Mosca alcuni avevano interpretato addirittura come un clamoroso cambio di fronte da parte della Wagner. Ipotesi e contro-ipotesi a parte, la replica di Prigozhin è stata altrettanto secca: “Putin sbaglia a definirci traditori, siamo i veri patrioti”. E ha gridato ancora una volta le sue accuse, violente e velenose, contro il ministro della Difesa Serghiei Shoigu e la sua cerchia nei vertici militari e al Cremlino. Shoigu qualche giorno fa aveva avuto l’ardire – a fronte della fallimentare controffensiva ucraina, tanto strombazzata quanto povera di risultati – di prevedere un ruolo vieppiù marginale della Wagner nei futuri combattimenti contro le forze di Kiev e i ‘volontari’ occidentali alleati. Critiche, quelle di Prigozhin, stupefacenti come le giravolte di comandanti dell’ “operazione speciale” (che di speciale aveva solo l’incompetenza di quanti l’avevano concepita e sviluppata) ma denunce alle quali il Cremlino continuava ad opporre un tonitruante silenzio: quello dell’ira soffocata dalla prudenza che imponeva una guerra che aveva bisogno del concorso di tutti. Ma una guerra mal concepita e peggio attuata.
Almerico Di Meglio (Napoli, 1948), giornalista professionista dal 1981, già inviato speciale all’estero e notista di politica italiana. Vive tra Napoli, l’isola di ischia e Parigi. Ha fatto parte dal 1979 al 2009 della redazione de “Il Mattino”. Caposervizio e inviato della Redazione Esteri ha scritto da molti Paesi: dall’Europa dell’Est e dell’Ovest, divise dalla Cortina di ferro, agli Stati Uniti e al Canada, dall’America Latina all’Africa Australe e del Nord, dall’Asia centrale e segnatamente dall’ex Unione Sovietica. Successivamente ha lavorato alla Redazione Politica. E’ esperto di relazioni Est-Ovest, di questioni geopolitiche e geostrategiche. Ha pubblicato “Tra le rovine dell’impero sovietico (Università Popolare di Torino editore, 2015).