La bella facciata rinascimentale della chiesa di Santa Caterina a Formiello – a Porta Capuana – è ancora nascosta da teloni da quando il 25 settembre 2017 cominciarono lavori nel segno dell’Unesco che sarebbero dovuti durare 309 giorni (ma sono trascorsi oltre quattro anni). A sinistra, seminascosto nella foto, c’è un portale ad arco sormontato da una iscrizione in rilievo: “LANIFICIO”. Oltrepassando questo ingresso, ci si ritrova in uno dei luoghi più sorprendenti e misconosciuti di Napoli: un’ampia corte, come una piazza all’aperto, circondata da antiche vestigia. Si tratta di uno dei due chiostri di un complesso monastico quattrocentesco (accorpato alla chiesa), trasformato nell’Ottocento in una fabbrica di tessuti e divise per l’esercito borbonico ad opera dell’imprenditore Raffaele Sava… Unico esempio di archeologia industriale nel cuore di Napoli. Una “cittadella” di 15mila metri quadri tuttora “viva” e vitale (abitazioni private, studi professionali, botteghe artigiane, centri culturali).
E ora due discendenti di quell’imprenditore illuminato – Giancamillo Trani, vicedirettore della Caritas napoletana, e il fratello Marco, amministratore del condominio dell’ex Lanificio Sava – in ricordo dell’antenato stanno per costituire la Fondazione Sava, una fondazione a scopo benefico, a partire dal contrasto alla povertà alimentare (intensificato, nel periodo del lockdown, soprattutto a favore della gente del quartiere Vicaria, da una già esistente associazione Sava che sta trasferendo derrate anche in Ucraina).
Raffaele Sava apparteneva a una famiglia impegnata da generazioni nella lavorazione della lana. “Nel periodo della Repubblica Partenopea”, racconta Giancamillo Trani, “aveva nascosto un ministro borbonico che rischiava la decapitazione. Quando rientrò il re, Ferdinando I, il ministro glielo presentò. Il re nel 1825 gli mise a disposizione quest’edificio, riconvertito in fabbrica e con macchinari tra i più avanzati dell’epoca”, in regime di enfiteusi ma esentandolo dal pagamento del canone annuo. “Quindi, le commesse per le divise dell’esercito borbonico…”. Sava fronteggiava bene la concorrenza della Francia “ma non quella degli Stati Uniti, che utilizzavano ancora la schiavitù, non pagando la manodopera…”. Allora il re gli concesse di scegliere le maestranze tra i reclusi e tra gli ospiti dell’Albergo dei poveri (che erano comunque remunerati). Forme di protezionismo che contribuivano alla prosperità delle industrie del Sud.
Poi tutto cambiò. “Quando arrivò Garibaldi”, continua Trani, “ordinò anch’egli le divise per i suoi uomini, assicurando che le avrebbe pagate lo Stato sabaudo”. Che, invece, non solo prese le distanze dall’iniziativa di Garibaldi ma non diede neanche esecuzione ai contratti stipulati da Sava col precedente governo borbonico; non rinnovò le commesse (nel 1861 il lanificio dava lavoro a oltre 600 persone e produceva un fatturato da un milione e 600mila lire all’anno). Lo stop alla produzione nel 1869, dopo 44 anni di attività, nonostante le cause intentate dai Sava allo Stato e al Demanio…
Poi l’abbandono, il declino; e dopo oltre 130 anni l’avvio nell’ex lanificio di iniziative cultural imprenditoriali come il “Lanificio 25” della Rendano Association; o “Made in Cloister” nel chiostro piccolo.
E ora sta per nascere la Fondazione Sava (la bisnonna paterna di Giancamillo e Marco Trani era Maria Sava), iniziativa apprezzata anche dal giornalista Alfonso Maffettone la cui bisnonna paterna era Amalia Sava, figlia di Luigi: “Una storia da ricordare, quella di Raffaele e del figlio Luigi, che crearono occupazione e ricchezza. Un’opera di alto impatto sociale perché diede lavoro remunerato anche a reclusi e forzati”.
Una fondazione finalizzata non solo al contrasto alla povertà alimentare (molto diffusa in quest’area) ma che contempla anche una sorta di “segretariato sociale” per fare rete con abitanti, associazioni, istituzioni del quartiere… Si potrebbe arrivare a stilare una “anagrafe del bisogno”, ragiona Giancamillo Trani, “per esempio a proposito delle certificazioni Isee utili ad ottenere prestazioni sociali e sociosanitarie agevolate, anche per capire se a fruire di certi benefici sono soltanto le persone meglio informate; e per intercettare quelle che invece magari non sanno, degli aiuti che potrebbero avere, come i malati cronici o gli anziani abbandonati…”. Nel frattempo si stanno anche radunando documenti e oggetti antichi dei Sava, da esporre eventualmente in un Museo, i cui proventi andrebbero in beneficenza.