Chiudiamo il ciclo di interviste ai napoletani all’estero con la testimonianza di chi ha vissuto la malattia in prima persona. Francesca Grippo è una fisioterapista, nata a Perugia, cresciuta a Firenze ma di origini napoletane, che da diversi anni vive e lavora a Parigi. Ed è stato proprio il suo lavoro, a contatto quotidiano con i pazienti, a farla precipitare nell’incubo Covid-19. Ce lo spiega mostrandoci, da una parte, la pericolosità del virus, dall’altra il funzionamento della struttura sanitaria francese, ben diversa da quella italiana.

Come ha contratto la malattia?
Lavoro in una clinica a Romainville e, con l’inizio dei contagi, alcuni miei colleghi sono stati colpiti dal virus. Da subito mi sono battuta per chiedere misure di protezione e tamponi per l’incolumità di noi operatori, ma non sono stata ascoltata. I tamponi non c’erano e le mascherine che ci avevano fornito avevano una durata massima di tre ore ma, quando si sono accorti che non erano sufficienti per tutti, ci hanno detto di indossarne una al giorno, senza cambiarle. La conseguenza è stata che nel giro di un paio di settimane ho iniziato anche io ad avere i primi sintomi.
È mancata chiarezza nella comprensione del problema?
C’è stata grande confusione e continua a esserci una gestione che non permette ai cittadini di avere piena coscienza della situazione. Il tutto aggravato dal fatto che in Francia, per cultura, è normale andare a lavorare con 38 di febbre. Diventa quindi molto complicato individuare i positivi, non solo gli asintomatici, e impedire la propagazione del contagio.
Come ha capito di avere il virus?
Il 3 aprile, quando nella mia clinica c’erano già 51 pazienti e almeno la metà del personale sanitario colpiti dal virus, salendo le scale con un paziente reduce da ictus mi sono resa conto che affannavo più di lui. Avevo già fatto un test la settimana prima ed ero risultata negativa, ma avevo capito che qualcosa non andava. La sera mi salì la febbre e il giorno dopo chiamai il medico di famiglia. Gli descrissi i sintomi e mi disse che avevo il Covid-19, ma senza fare un ulteriore tampone. In Francia, infatti, il tampone viene fatto una volta sola e, soprattutto, anche chi risulta positivo non viene ricontrollato successivamente: gli vengono prescritti quindici giorni di malattia e deve rientrare al lavoro, indipendentemente dal decorso.

Una volta scoperto il virus come ha affrontato la situazione?
Ero sola in casa, perché avevo consigliato al mio compagno, quando avevo capito che il rischio sul luogo di lavoro era alto, di allontanarsi da casa, poiché la sua azienda aveva chiuso. Ho dovuto affrontare tutto in autonomia, curandomi con il paracetamolo. Dopo alcuni giorni ho chiesto al medico di farmi sottoporre al tampone e sono riuscita ad ottenerlo, anche se mi hanno detto che i risultati li avrei avuti solo dopo diversi giorni. Avevo febbre altissima che non accennava a calare e tutti gli altri sintomi di cui si parla ormai da settimane. Il mio medico ha suggerito di fare anche una Tac e il giorno successivo, sempre da sola, mi sono dovuta recare in ospedale, dove sono rimasta quasi tutto il giorno e, alla fine, mi hanno rimandata a casa, nonostante i miei amici medici, dall’Italia, mi avessero detto che con quel referto mi avrebbero dovuta ricoverare subito.
Com’è riuscita, quindi, a farsi curare e a guarire?
Dopo la Tac mi hanno prescritto l’azitromicina, che però mancava in ospedale e sono stata costretta a comprarla io in farmacia, al termine di quella giornata infernale. Nonostante questo, stavo sempre peggio. Quando ho capito che non ce l’avrei potuta fare da sola, perché ero in debito di ossigeno da ormai due giorni, ho chiamato il numero di emergenza e mi sono venuti a prendere in ambulanza, dandomi subito l’ossigeno: è stato quello il primo momento in cui mi sono sentita meglio. In ospedale, a Montreuil, mi hanno curato subito con eparina, cloruro di sodio perché ero disidratata e Lopinavir, un farmaco per l’Aids, insieme all’ossigeno, che ho dovuto utilizzare senza interruzione, e questo mi ha permesso, in dieci giorni, di riprendermi a sufficienza per poter essere dimessa e proseguire la degenza in casa.
Adesso è guarita completamente?
Come ho già detto, in Francia non è possibile fare un tampone di controllo. Avevo una prescrizione precedente che non avevo utilizzato, poiché il primo mi era stato fatto su indicazione del mio datore di lavoro, e ne ho approfittato per farmi controllare, ma a distanza di ventitré giorni dall’inizio della malattia sono risultata ancora positiva. Ho la possibilità di farne un altro, grazie alla prescrizione ottenuta dall’ambasciata italiana, che mi ha supportato in più momenti durante la vicenda, e spero che quello possa darmi buone notizie. Certo, a differenza di quanto accade in Italia, il secondo tampone ravvicinato, che è quello che dà la garanzia della fine della malattia, non so se e come potrò farlo e se, quindi, potrò avere certezze sulla mia guarigione, oltre a poter dare garanzie a chi mi sta vicino, in casa o al lavoro, sulla mia possibile contagiosità.

Un’esperienza dolorosa e difficile già di per sé, ma che ha visto anche da parte di qualcuno anche un pregiudizio nei confronti dell’Italia.
Sembra assurdo, ma è così. In Francia la gestione dell’emergenza è molto meno attenta che in Italia. Basti pensare che i numeri diffusi fanno riferimento solo ai ricoverati in ospedale, escludendo tutti i positivi che vengono tenuti in isolamento casalingo o che, in molti casi, vengono riconosciuti dai sintomi ma ai quali non viene effettuato neanche il tampone. Nonostante questo, quando ho fatto notare a una dottoressa dell’ospedale di Montreuil, che mi diceva che sarei potuta tornare a lavorare, che non ne ero in condizione pur essendo ormai in malattia da diverse settimane e che in Italia c’erano ospedali dove erano assenti per malattia anche cinquanta medici, mi è stato risposto: «Per fortuna qui non siamo in Italia». È paradossale, ma purtroppo è vero: il pregiudizio c’è e non c’è neanche coscienza dei limiti del sistema francese, che rischia di portare a una vera e propria strage se viene gestito così ancora a lungo.
In conclusione, cosa può dirci della sua esperienza?
Questo virus è molto pericoloso. Io sono una donna giovane, attiva, che pratica sport e non ha mai avuto problemi di salute. Solo la vicinanza, dovuta al lavoro, con persone colpite dal Covid-19 mi ha portato ad ammalarmi e i sintomi sono stati terribili. È vero che ci sono anche persone colpite in modo più lieve, ma la mia condizione di base mi porta a pensare che sia assolutamente casuale la forza con cui colpisce. Allo stesso tempo, temo che un fisico meno forte del mio avrebbe avuto serie difficoltà a riprendersi e io, a quasi un mese di distanza dall’inizio della malattia, ho una debilitazione fortissima. Credo, quindi, che le precauzioni siano indispensabili perché la pericolosità di questa malattia e la sua scarsa conoscenza da parte della comunità scientifica possono renderla letale molto più di quanto si pensi e sta a noi e ai governi creare le condizioni per arrestarne la diffusione e tornare alla vita di prima.