di Eleonora Belfiore
In scena al Piccolo Bellini in questi giorni, “Gemito, l’arte d’ ‘o pazzo” scritto e diretto da Antimo Casertano, che presta volto e anima al celebre scultore partenopeo. Insieme a lui, sul palcoscenico, Daniela Ioia, Luigi Credendino e Ciro Kurush Giordano Zangaro.
Lʼevento è impreziosito dalla mostra di alcune riproduzioni di busti provenienti dalle Fonderie Gemito, realizzate con calchi originali del maestro, esposti nel foyer del Teatro Bellini, con la possibilità di una visita guidata, a cura dello storico dell’arte Matteo Borriello.
Lo spettacolo nasce dalla collaborazione tra NarteA e Teatro Insania, ed è un tributo al talento, fatto di luci e ombre, di cadute e di rinascite, di Vincenzo Gemito.
Il destino avverso dellʼartista, caratterizzato da lutti e da abbandoni, deposto nella ruota degli esposti dello Stabilimento dell’Annunziata, sembra dunque essere scritto sin dalla nascita e si caratterizza per una perenne ricerca di un posto nel mondo, che non riuscirà mai a trovare. Un Fato che sembra prendersi gioco di lui anche nel cognome, Genito – ovvero generato – associato solitamente agli orfani, che per un errore di uno scrivano divenne Gemito. Adottato e cresciuto in una famiglia poverissima, riuscì purtuttavia a trovare la sua strada. La sua fama gli fece guadagnare la commissione della statua in marmo di Carlo V per la facciata del Palazzo Reale di Napoli. Le difficoltà, vere, presunte, immaginate, nel portare a termine questo incarico, decisamente lontano dalla sua poetica quasi caravaggesca degli “ultimi”, e per il quale riuscì solo a realizzare il modello in gesso, gli provocarono un grave esaurimento nervoso. I successivi vent’anni furono segnati da ricoveri, paranoie e, infine, dalla clausura domestica volontaria, che questo spettacolo ripercorre con grande sensibilità. Gemito, ripresosi agli inizi del ‘900, sperimentò ancora momenti di forte creatività fino alla morte che lo colse, circondato dai tanti fantasmi che sempre affollarono la sua mente, nel 1929.
Attento e scrupoloso il lavoro di ricerca di Antimo Casertano, che ha avuto modo di leggere anche i diari e i carteggi dellʼartista. Valore aggiunto dello spettacolo, le musiche originali di Marco DʼAcunzo e di Marina Lucia, le scene di Flaviano Barbarisi, le foto di scena di Nina Borrelli, e i bei costumi di Antonietta Rendina.
Un testo che, come ha affermato il regista, nasce durante il lockdown, in uno dei momenti più drammatici della nostra storia contemporanea, e che pone lo spettatore di fronte ad importanti interrogativi sul valore della vera arte e sui demoni interiori che ci portiamo dentro. Demoni quasi necessari, altrimenti, sentenzia Ciro Kurush Giordano Zangaro, straordinario fantasma shakespeariano di “Carlo V”, in uno dei momenti più toccanti dello spettacolo, “saremmo fatalmente soli contro noi stessi”. Un incubo, forse, peggiore delle visioni e dei deliri vissuti dallo scultore.
Potenti anche le prove di Luigi Credendino, che interpreta lʼamico Salvatore, e di Daniela Ioia, nel ruolo di Annina, la moglie di Vincenzo Gemito, colei che più di tutti pagò il prezzo della follia del celebre artista partenopeo. Filo conduttore dello spettacolo, il circolo vizioso dellʼArte per la vita e della vita per lʼarte, eterno macabro uroboro, che attanaglia e stritola, di sovente, gli artisti. Ma il regista ci tiene a sottolineare il blocco artistico che colpì lo scultore negli anni di reclusione, a dimostrazione di come il dolore non sempre sia foriero di creatività.
Uno spettacolo più che mai attuale, che pone importante quesiti anche sul valore della libertà intellettuale. Così, la pièce diventa indagine sulle nostre pulsioni, su quelle “voci di dentro”, di eduardiana memoria, che plasmano le nostre ossessioni, qui rappresentate da un blocco di marmo, e sullo sforzo michelangiolesco di liberarci dalla materia, per volare alto. Un sogno degno di Icaro, un volo pindarico, forse, ma che ci caratterizza come esseri umani, preziosi, ambiziosi e imperfetti, cristallizzati in quella caducità ben rappresentata dai ciliegi nipponici.