Il 17 marzo ricorre il 160°anno dall’Unità d’Italia, data nella quale “Sua Maestà il sanguinario ed usurpatore re Savoia del Piemonte e della Sardegna, Vittorio Emanuele II, assunse il titolo di primo Re d’Italia: «Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli Atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come Legge dello Stato». Dat. a Torino, addì 17 marzo 1861.
Ma il Veneto era ancora sotto il dominio dell’Impero Asburgico, così come Trento e Trieste, mentre Roma era governata dal Papa e non tutto il sangue era stato, quindi, versato: ci vollero altre tre guerre (la Terza Guerra d’Indipendenza, la Guerra Franco-Prussiana e la Prima Guerra Mondiale) per vedere compiuto il truce disegno di un’Italia tutta unita:17 marzo, l’ipocrita giornata nazionale dell’Unità, della Costituzione, dell’inno di Mameli e della bandiera” in virtù della legge 222 approvata nel 2012 e fortemente voluta da Napolitano. Tanto si è parlato negli anni precedenti di questa farlocca unità che la narrativa imperante vuole piena di buone intenzioni e, ancor di più, di ipocrita consapevolezza nel pensare di essere diventati un solo popolo. Desiderio che si covava da mille anni, dicono. In realtà era il Mezzogiorno d’Italia pressoché unito dal 1130, e mentre si continua oggi a millantare una falsa unità con gli abitanti del Nord, il Covid ha spregiudicatamente messo in luce le annose disparità e discriminazioni. Che continuano incessantemente da 160 anni. E quindi ci chiediamo, noi gente del Sud, cosa ci sia esattamente da festeggiare.