Home Calcio Napoli Dammi tre parole: focus sulla settimana azzurra in tre definizioni

Dammi tre parole: focus sulla settimana azzurra in tre definizioni

Screenshot

TRAGEDIA: chi è abbastanza vecchio come me e segue il calcio, sa perfettamente che Renato Curi non è solo il nome di uno stadio del centro Italia, ma un ragazzo di 24 anni che una domenica pomeriggio di 48 anni fa, lasciò la sua anima sul prato di una partita di serie A. Avevo 12 anni e seguivo il calcio da 4. Conoscevo le formazioni del Napoli e della Juve a memoria e seguivo “Tutto il calcio minuto per minuto” ogni santissima domenica. Già, perché si giocava solo di domenica e tutti allo stesso orario e non esisteva alcun modo per conoscere il risultato delle partite fino all’inizio del secondo tempo perché la trasmissione andava in diretta solo per i secondi 45 minuti. I secondi tempi erano iniziati da pochissimo, circa dieci minuti e lo shock del momento in cui sentii la frase “un calciatore del Perugia si è accasciato al suolo, è Renato Curi” lo ricordo perfettamente, così come la notizia della sua morte che arrivò nel giro di qualche decina di minuti, mentre la trasmissione delle partite era ancora in corso. Al tempo, come si può intuire da quanto appena descritto, la protezione della privacy che oggi è regola ferrea e molto sentita dagli addetti ai lavori, non lasciava molto spazio al “potrebbero esserci i familiari in ascolto”, per cui la brutalità delle informazioni era qualcosa di veramente sferzante. La totale disabitudine alla “morte in diretta” che oggi purtroppo non solo è fruibile a piacimento ma è una catastrofica deriva voyeuristica, essendoci telecamere in ogni angolo delle terre emerse, rese quell’evento veramente epocale. Era praticamente la prima volta che si apprendeva nel momento in cui succedeva, della morte di un giovanissimo (benché sembrasse molto più grande di quello che era) in un contesto di svago, anzi nel contesto di svago per antonomasia. Ma era un caso praticamente unico. E questa cosa va sottolineata.

 

DRAMMA: mi affido alla mia memoria sperando di non sbagliare ma in un secolo di calcio, le morti in campo nei campionati professionistici italiani sono state 2 (Curi e Morosini) mentre i decessi di calciatori morti mentre erano in attività ma non durante una partita sono altre due, vale a dire Astori nel 2018 e Taccola nel 1969. Poi ci sono stati i casi come quelli di Manfredonia nel passato remoto e più recentemente Eriksen, N’Dicka e Bove, salvati da malori importanti sul campo. E qui viene la prima considerazione: è estremamente probabile che sia Curi che Taccola siano deceduti perché i soccorsi erano fatti con la clava per anestetizzare, la pietra scheggiata per incidere e gli schiaffetti sulle gote per rianimare (basti pensare che il massaggio cardiaco è una manovra di primo soccorso entrata in uso negli anni ’70 ed è diventata una pratica di massa a partire dal decennio successivo). A contare a spanne ma con buona approssimazione, i calciatori professionisti dello stesso secolo in discussione, nei campionati italiani sono stati circa 250mila. Questo porta alla seconda considerazione: i morti giovani sono sempre troppi, di qualsiasi tipo di “statistica” si parli, che siano due, quattro o quarantamila. A volte è solo il tipo di attenzione dell’opinione pubblica dettato dai mezzi di informazione a fare la differenza. Però non si può ignorare il raffronto con la mortalità giovanile tout court. Prendendo i 4 su 250000, si può comprendere che stiamo parlando di casi rarissimi ed assolutamente in linea con le statistiche generali che riguardano la mortalità giovanile per eventi cardiocircolatori nella fascia di età che coinvolge i calciatori (18-35 più o meno). Quello che è determinante è che il progresso in campo medico ed in particolare delle tecniche e delle regole di primo soccorso ha fatto sì che le tragedie di Curi e di Taccola fossero quasi irripetibili, che per Morosini si sia trattato di inspiegabile negligenza (non è stato usato il defibrillatore da nessuno dei tre medici che lo hanno avuto sotto mano nella fase di emergenza), mentre per Astori non si può che parlare di pura sfiga per essersi trovato da solo all’atto dell’episodio acuto. In tutti gli altri casi di malori in campo, per rimanere nell’ambito dei campionati italiani, i soccorsi hanno derubricato in dramma quella che sarebbe stata altrimenti una tragedia e in taluni casi sono stati drammi a totale lieto fine visto che, per esempio, N’Dicka ed Eriksen sono tornati a calcare i campi di calcio come se nulla fosse accaduto, nel giro di pochissimo tempo, cosa che speriamo con tutto il cuore accadrà anche per Edoardo Bove. E non si può non sottolineare che questo sarebbe stato assolutamente impensabile ancora solo una decina di anni fa.

 

COMMEDIA: o forse sarebbe più adatto il termine ‘pantomima’. Il dibattito sulla sicurezza è sempre, assolutamente, sacrosanto e imprescindibile. Il problema di questo paese è che in Italia siamo campioni mondiali nello sport nazionale del lancio della croce addosso e ci giochiamo la medaglia d’oro con pochi altri nella disciplina dello spalamento di merda. Il primo slancio di opinione generalizzata quando accade qualcosa di drammatico è la ricerca di un colpevole ‘pronto-corsa’, visto che la soglia di attenzione dell’opinionista medio su un episodio del genere è di non più di 3-4 giorni: nel caso specifico è stato dunque un fiorire di croci lanciate sui medici, sui dirigenti, sulle regole sbagliate, sulla federazione internazionale che abboffa il calendario di partite. In taluni casi sono state banalmente considerazioni da idioti, visto che una persona con l’intelligenza minima aspetta che si sappia perché un evento è accaduto per farsi un’idea ed una con una intelligenza più spiccata tace fino alla sentenza di cassazione, se si parla di un evento che richiede di individuare una colpa, un dolo o più semplicemente una casualità. In altri casi sono stati invece dibattiti facili ma probabilmente, per lo stesso motivo di cui sopra, totalmente sterili. Il calendario inzeppato oltre l’inverosimile è sicuramente un argomento di discussione, ma pensare che sia causa di un malore per un uomo di 22 anni, apparentemente in piena salute e con certificazioni mediche che il 98% dei comuni mortali non si può permettere, significa voler dare aria alla bocca o, nel caso del dibattito ‘autorevole’ tra addetti ai lavori, è solo un modo per creare engagement (la vera malattia dell’informazione del XXI secolo). Il problema esisterebbe se questi episodi fossero frequenti, mentre per santissima fortuna, o più semplicemente per pura natura, sono accadimenti talmente rari che possono essere attribuiti con poco margine di errore al caso. Parlare a schiovere di queste cose è solo una diversa posizione nella scala di quella stessa ignoranza non così poco diffusa che se la prende con i vaccini. Una commedia nella quale è più facile piangere che ridere.

 

Ah, il Napoli, ancora per un’altra settimana, avrà la uallera appoggiata sulle teste di tutte le altre squadre. Per quello che conta in una giornata di calcio, in cui di calcio si è giustamente parlato poco, resta un dato puramente statistico ed ovviamente temporaneo, ma ci piace goderne finché dura. Come si dice? Quanno si martiello…

Previous articleCortiSonanti, festival internazionale di cortometraggi ecco i vincitori della XV edizione
Next articleIeri e oggi, la passione dei napoletani per il gioco