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Un anno di guerra: sangue, sanzioni, armi e menzogne

A un anno dall’ “Operazione speciale” – l’attacco russo all’Ucraina – il risultato è quadruplo. 1) Il Cremlino non ha vinto (perché l’Ucraina ha respinto l’invasione e rinvigorita un’identità nazionale poliedrica), ma neppure ha perso (perché, a dispetto di sanzioni e armi a valanga a Kiev, conserva le regioni russofone e soprattutto la Crimea con il controllo del Mar d’Azov e delle rotte del Mar Nero). 2) Il Donbass – dove per otto anni s’era già combattuta una guerra civile di media intensità costata oltre 14mila morti e almeno il triplo dei feriti – è letteralmente devastato e chi porta i conti garantisce siano una quindicina di milioni gli ucraini sfollati o rifugiati all’estero, duecentomila i caduti sui due fronti. 3) E’ aumentato il rischio che il conflitto si allarghi alla Transnistria, l’enclave russofila compresa nella Moldavia, proclamatasi nel 1990 indipendente, che aspirava a una sorte simile a quella del Kossovo, cioè al riconoscimento internazionale, che nel 2014 ha chiesto l’adesione alla Federazione russa e che Mosca potrebbe trasformare nella Kaliningrad (l’ex Koenisberg prussiana) del Mar Nero. 4) E’ anche cresciuto il pericolo che la conclusione di un lungo conflitto combattuto con moderni – e terribilmente efficaci – armamenti convenzionali sia il fuoco nucleare tra NATO e Russia.

Ad aggravare il quadro, la possibilità che una commissione internazionale d’inchiesta – richiesta da Mosca – per indagare sull’attentato al gasdotto Nord Stream confermi i sospetti sulle responsabilità USA e di altri Paesi dell’Alleanza Atlantica. Oggi, insomma, un compromesso che scontenti il meno possibile i due fronti appare un’impresa al limite delle possibilità. Nelle mani della sola Cina, forse.

Nel suo rapporto alla nazione dell’altro giorno il capo del Cremlino avrebbe dovuto non solo lanciare accuse ma anche spiegare ai popoli della Federazione russa l’arcano di una “Operazione speciale” che di speciale aveva solo l’essere stata mal concepita e peggio attuata; ammettere l’errore tragico di aver attaccato quando, con la sola minaccia delle sue truppe al confine ucraino, poteva ancora sperare di ottenere dal regime di Kiev la neutralità del Paese, di convincere Volodymyr Zelensky e il suo entourage a rinunciare alla prospettiva dell’adesione a una NATO già straripata fin dentro l’ex Unione Sovietica. Putin poteva ancora premere su un titubante Zelensky e convincerlo a superare le pressioni contrarie di Boris Johnson, di Joe Biden e degli inesauribili storici nemici di Varsavia, che avevano affossato la mediazione dell’ex premier israeliano Naftali Bennet.

Putin ha “liberato” finora meno territorio di quanto aveva promesso ai connazionali e può essere in futuro accusato di aver minato la credibilità delle forze armate convenzionali e delle capacità dell’Intelligence, indebolite per aver impiegato altrove gli attivi del bilancio statale, sebbene nell’ammodernamento di vetuste strutture e infrastrutture civili d’epoca comunista.

Resta il fatto che le sue accuse di “tradimento” rivolte all’Occidente non poggiano tutte sul vuoto, anzi. Sono stati il presidente francese Francois Hollande e la cancelliera tedesca Angela Merkel a riconoscere che gli Accordi di Minsk erano stati sottoscritti solo “per prendere tempo” e fornire armi e addestramento agli ucraini. E l’anno scorso, mentre gli osservatori dell’OSCE denunciavano i bombardamenti ucraini sulle regioni russofone, lo stesso generale John R. Allen, già comandante delle forze NATO in Afghanistan, confermava che l’addestramento di forze ucraine durava da un decennio. Ma già all’indomani del crollo di Berlino, che anticipava la riunificazione della Germania, si davano a Mosca false assicurazioni.

Il 22 febbraio del 2022, alla vigilia dell’attacco russo all’Ucraina, un dossier di “Insiderover” rilanciava in Italia lo ‘scoop’ di “Der Spiegel” che accreditava le accuse che in quei giorni Putin scagliava contro gli Stati Uniti e i suoi alleati europei per “aver imbrogliato e palesemente ingannato Mosca”. A partire dal summit USA-URSS di Malta, ai primi di dicembre 1989. Mikhail Gorbaciov si fidò delle parole di George Bush junior e del segretario di Stato James Baker, i quali affermarono che “la NATO non sarebbe avanzata a est nemmeno di un centimetro”. E nei mesi seguenti l’ultimo segretario del PCUS e presidente dell’URSS sciolse il Patto di Varsavia, senza uno straccio di trattato o di documento scritto che riportasse le promesse degli Stati Uniti. Ingiustificabile, clamorosa e micidiale ingenuità che in patria gli fu rimproverata fino alla morte. Infatti, da Washington e dai Paesi della NATO si susseguirono poi le smentite. Ultima quella dell’attuale segretario dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg: “Nessuno, mai, in nessuna data e in nessun luogo, ha fatto tali promesse all’Unione Sovietica”.

Il 7 maggio 2008 Gorbaciov rilasciò al “Daily Telegraph” un’intervista nella quale accusò Washington di averlo tradito. “Gli americani ci promisero che la NATO non sarebbe mai andata oltre i confini della Germania dopo la sua riunificazione, ma adesso che metà dell’Europa centrale e orientale ne sono divenuti membri, mi domando: che cos’è stato delle garanzie che ci erano state accordate? La loro slealtà è un fattore molto pericoloso per un futuro di pace perché ha dimostrato al popolo russo che di loro non ci si può fidare”. Putin ricordava bene quell’intervista, ma era stato anche testimone della NATO impegnata a bombardare la Serbia strappandole la sua “culla”, il Kosovo; poi ingoiare – sfruttando l’odio accumulato verso i sovietici – l’intera area dell’ex Patto di Varsavia; poi ancora penetrare nell’ex URSS, nel Baltico; insidiare il Caucaso attraverso la Georgia; infine, puntare sull’Ucraina (che per i russi significava “linea di frontiera” dell’ex impero) per portare le armate dell’Alleanza Atlantica ad “abbaiare – come rilevò lo stesso Papa – fin sotto l’uscio di casa della Russia”.

E torniamo a “Der Spiegel”: pubblicò che il politologo statunitense Joshua Shifrinson aveva scoperto , nel British National Archives, il verbale del vertice sulla sicurezza dell’Europa centrale ed orientale svoltosi il 6 marzo del 1991 a Bonn. Vi parteciparono i direttori politici dei ministeri degli Esteri di USA, Germania, Gran Bretagna e Francia. L’impero sovietico si trasformava e si discusse la prospettiva di prevedibili richieste di adesione all’Alleanza Atlantica da parte di Paesi (a cominciare dalla Polonia) impazienti di liberarsi delle dittature comuniste e di garantirsi l’indipendenza sotto l’ombrello della NATO. L’ipotesi era, però, “inaccettabile”.

Nel verbale si ricorda il ‘negoziato Due più Quattro’ (Repubblica Federale di Germania, Repubblica Democratica tedesca, USA, URSS, Francia e Gran Bretagna) sulla riunificazione della Germania: “Abbiamo chiarito… che non intendiamo far avanzare l’Alleanza Atlantica oltre l’Oder e pertanto non possiamo concedere alla Polonia o ad altre nazioni dell’Europa centrale e orientale la possibilità di aderirvi”. E il rappresentante degli Stati Uniti , Raymond Seitz, spiegava: ” Abbiamo promesso ufficialmente all’URSS, nei colloqui ‘Due più Quattro’ e in altri colloqui bilaterali tra Washington e Mosca, che non intendiamo sfruttare sul piano strategico il ritiro delle truppe sovietiche dall’Europa centrale e orientale e che la NATO non dovrà espandersi al di là dei confini della nuova Germania”. Infatti…

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