La missione a Pechino di Emmanuel Macron, accompagnato dai più fervidi auguri di fallimento da parte di Washington – esternati come spesso avviene via “Politico” – promette un timido raggio di sole tra le nubi che avvolgono i rapporti economici e politici tra Occidente e Cina e mira a rafforzare lo sforzo diplomatico di Xi Jinping per l’avvio di trattative in Ucraina. “La Cina – ha affermato il presidente francese – può svolgere un ruolo maggiore” nella ricerca di “un cammino di pace”. Macron è il leader europeo che conserva più credito a Pechino come a Mosca ed è convinto che il presidente cinese – forte dell’influenza che esercita sul Cremlino ma anche su Kiev (la Cina è il maggior partner commerciale e ha un ruolo potenziale rilevante nella futura ricostruzione) – resta l’unico capace di favorire una tregua e l’avvio di trattative in Ucraina.
All’incontro con Xi Jinping, il presidente francese non da solo ma in compagnia dell’onnipresente Ursula von der Leyen, anch’ella in missione nel Celeste Impero. Il capo del’Eliseo e la presidente della Commissione europea nella sede del potere statale adiacente alla Città Proibita per mitigare il rischio di ulteriori contraccolpi commerciali dopo che la Casa Bianca, con Donald Trump e poi con Joe Biden, ha deciso di frenare l’espansionismo economico e strategico cinese. L’Europa ha seguito Washington e fatto tesoro della lezione del Covid, ha raffreddato l’invadenza cinese e socchiuso le porte sulla nuova Via della seta. Ora, però, punta a un rapporto più sereno e su basi realistiche. L’UE presenta posizioni differenziate (si pensi alla Germania, l’unico Paese con una bilancia commerciale in attivo con la Cina, e alla Lituania dai rapporti invece burrascosi) e mentre ricuce con Pechino programma di conciliare le posizioni. Per Macron anche una puntata a Canton, centro anche simbolico della potenza commerciale sviluppata sulla globalizzazione della nuova “altra potenza” planetaria. Non a caso, a seguirlo una cinquantina abbondante di imprenditori accolti da una nutrita rappresentanza di colleghi cinesi e connazionali stabilitisi nella più vasta area produttiva del mondo. Colloqui d’affari ma svolti su un tappeto di memoria storica politica: Parigi fonte primaria d’ispirazione ideologica per i padri fondatori del partito comunista cinese (e di quelli della stessa Indocina ex francese) e poi, dopo un sanguinoso addio, punto di riferimento di corretti rapporti internazionali.
Si cerca, insomma, la sponda cinese non a caso mentre s’intensifica l’azione americana. L’entrata nella NATO della Finlandia – che precede la Svezia ostacolata vieppiù debolmente da Turchia e Ungheria – e la risposta di Mosca coi missili nucleari dispiegati a Kaliningrad e lungo i confini russi e bielorussi accresce, infatti, il rischio di un fuoco atomico con l’esplosione in Ucraina di un primo ordigno ‘tattico’. La determinazione dell’amministrazione statunitense, coadiuvata segnatamente da Polonia e Gran Bretagna, conferma il disegno di puntare al rovesciamento di Vladimir Putin attraverso la sua sconfitta militare, con una riconquista del Donbass e della stessa Crimea. Lo confermano una incrementata campagna terroristica di attentati e assassinii in Ucraina e in Russia e la coincidenza tra il procedimento contro Trump e gli ulteriori aiuti militari per 2 miliardi e 600mila dollari al regime di Volodymyr Zelensky. Lo stesso ex presidente USA – abbandonando per un attimo le accuse tonitruanti al procuratore distrettuale di Manhattan e la retorica elettorale delle primarie repubblicane – ha rinnovato l’accusa al suo successore di trascinare gli Stati Uniti verso un apocalittico scontro nucleare. Trump è stato tra i pochissimi presidenti USA – e l’unico dalla parentesi di Gerald Ford alla Casa Bianca – ad aver evitato un conflitto al suo Paese.
Il via al procedimento formale contro Trump ha ricompattato il Partito repubblicano: vertice e base unite a difesa dell’ex presidente. A difenderlo non solamente sostenitori repubblicani perché – di là dal caso in questione che ha spettro ed implicazioni ben più ampie – vale ormai anche un diffuso fastidio provocato dalla facilità con cui qualche attricetta fallita o vetusta ‘professionista’ in cerca di notorietà si ricordi di denunciare chi le sfiorò il lato-b su un bus quarant’anni prima e venga presa sul serio. A favore di Trump giocano pure altri fattori. Il primo è Alvin Bragg, il procuratore distrettuale di Manhattan: com’è noto è stato eletto a svolgere quel ruolo, è militante nello schieramento radicale del partito dell’Asino, dalla credibilità pari allo zero tra i repubblicani d’ogni tendenza e di non molto superiore nei tre quarti dei democratici, bersaglio di critiche nella sua New York, dove persino lo stesso sindaco – Eric Leroy Adams, peraltro pure lui nero e Dem – lo incolpa d’essere tra i maggiori responsabili dell’aumento della criminalità sviluppatasi nella metropoli (i malavitosi – ha affermato senza peli sulla lingua – non temono la legge perché ritengono che “il nostro sistema di giustizia penale sia lo zimbello di tutto il nostro Paese”). Ecco, in sintesi, chi è Bragg, colui che ha regalato a Trump il più efficace degli spot elettorali e un Elefante per l’occasione solidale, a cominciare dai suoi rivali nelle primarie.
Ma alcuni sondaggi rivelano che la fascia più moderata dell’elettorato dell’Elefante se assolve Trump con formula piena, tuttavia guarda con favore a Ron De Santis nella sfida con Joe Biden per la Casa Bianca. Biden teme il governatore della Florida e tace sperando che Trump prevalga nelle primarie per carpire proprio in quella fascia d’elettorato la manciata di consensi che assegna la vittoria. Manca, però, troppo tempo alle elezioni per escludere mutamenti di scenario. Ammesso che la situazioni resti bloccata in Ucraina, un presidente repubblicano, Trump o lo stesso De Santis, percorrerebbe con maggiore convinzione la via delle trattative. A Kiev il regime accentua i caratteri di Stato poliziesco giustificandoli con la guerra in corso: dall’arresto del metropolita Pavel estromesso dal Monastero delle Grotte agli imprigionamenti senza processi, dalle eliminazioni nel Donbass di collaborazionisti veri o presunti all’uccisione di prigionieri, dalla repressione delle forze politiche d’opposizione al tacitare voci dissidenti con la minaccia dell’accusa di fiancheggiamento del nemico o tradimento. E si moltiplicano gli attentati mirati dentro e fuori i confini. Stavolta non è andata come a Mosca per Aleksandr Dugin, dove a restare uccisa fu invece la figlia Darja e l’attentarice riuscì a fuggire. Stavolta è stata rispettata la tradizione del vecchio KGB: l’attentatrice (anche lei Darja) è stata arrestata con un complice poche ore dopo l’esplosione a San Pietroburgo, che ha centrato l’obiettivo (il blogger-giornalista Vladlen Tatarsky, nome d’arte Maxim Fomin) e ferito più o meno gravemente una trentina di persone. Colpisce, almeno sulle prime, che si tratti di donne: la storia conta parecchie assassine e terroriste, però essendo procreatrici si tende sentimentalmente ad escluderle come mortifere e si abbassa la guardia. Una mancata strage da rubricarsi come un trascurabile inciso nella lunga cronaca nera di questo conflitto in Ucraina che, tuttavia, rischia di sfociare nella terza guerra mondiale. Simile alle prime due, perché compresa nelle varie declinazioni della ‘Trappola di Tucidide’. Ma questa sarebbe nucleare: la terza e l’ultima.

Almerico Di Meglio (Napoli, 1948), giornalista professionista dal 1981, già inviato speciale all’estero e notista di politica italiana. Vive tra Napoli, l’isola di ischia e Parigi. Ha fatto parte dal 1979 al 2009 della redazione de “Il Mattino”. Caposervizio e inviato della Redazione Esteri ha scritto da molti Paesi: dall’Europa dell’Est e dell’Ovest, divise dalla Cortina di ferro, agli Stati Uniti e al Canada, dall’America Latina all’Africa Australe e del Nord, dall’Asia centrale e segnatamente dall’ex Unione Sovietica. Successivamente ha lavorato alla Redazione Politica. E’ esperto di relazioni Est-Ovest, di questioni geopolitiche e geostrategiche. Ha pubblicato “Tra le rovine dell’impero sovietico (Università Popolare di Torino editore, 2015).