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Ucraina: il negoziato con troppi sì, no, ni

Il giorno del via libera italiano a un nuovo invio di armi all’Ucraina, Vladimir Putin rinnova l’accusa di “doppiezza” all’Occidente – che per Mosca significa Stati Uniti – che da un lato proclama la volontà di negoziare e, dall’altro, pone condizioni inaccettabili. Se, infatti, la fine della guerra viene vincolata all’obiettivo del governo di Kiev di stringere nuovamente in un pugno di ferro il Donbass russofono e addirittura di strappare la Crimea alla Russia, ogni ricerca di compromesso sarebbe vana. Putin lo ha ribadito nel corso di una telefonata con il cancelliere tedesco Olaf Scholz. L’invio di armi e di istruttori militari da parte degli Stati occidentali – ha sottolineato il capo del Cremlino – rappresenta una “linea distruttiva” perché rafforza il rifiuto del regime di Kiev a trattare. E ha giustificato i bombardamenti sull’Ucraina come la reazione agli attentati che hanno colpito la Russia.

Un chiarimento, quello di Putin, perché Mosca resta disponibile al negoziato ma non alle condizioni che le si vorrebbero preventivamente imporre, tantomeno sulla base di un ritiro sulle posizioni precedenti al “colpo di Stato” contro il presidente Viktor Yanukovich a cavallo del 2014. La missione a Washington di Emmanuel Macron (l’unico leader del Vecchio Continente con la parvenza di presentarsi a nome di una Unione Europea tutt’altro che unita), ha comunque dischiuso nuovamente uno spiraglio per le trattative. La disponibilità – vedremo se strumentale o meno – di Joe Biden al negoziato (“se Mosca ne mostrerà altrettanta”), è apparsa un passo avanti, seguito da quello del ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov che ha indicato in John Kerry l’interlocutore più credibile al tavolo di eventuali trattative (“per la garanzia di serietà mostrata in precedenti occasioni”). Ma la postilla di Biden (il sostegno “indiretto” di USA e NATO proseguirà finquando Kiev non avrà accettato l’ipotetico compromesso) è stata giudicata da Putin l’ennesima ipocrisia del capo della Casa Bianca. Tanto più, accompagnandosi alla reiterata assicurazione a Zelensky di un’altra quarantina di milioni di dollari in aiuti militari. Un supporto che, detto per inciso, rappresenta neppure il 5% della cifra-monstre di 750 miliardi di dollari che assorbe la Difesa americana. Né si tratta di regalie.

Macron a Washington è stato significativamente accolto con grandi onori, cioè col protocollo delle importanti visite di Stato – interrotte per tre anni – e con dichiarazioni d’amicizia volte a seppellire le tensioni nate con lo sgarbo della rottura del contratto franco-australiano che prevedeva la fornitura di sommergibili francesi all’Australia, sostituiti da quelli statunitensi. Il presidente francese ha colmato anche l’attuale vuoto diplomatico della Germania: motore economico dell’Europa ma amputata dei rifornimenti energetici russi, costati decenni di sforzi diplomatici e di collaborazione economica, e con l’esportazione sul mercato cinese in pericolo (finora l’unico Paese occidentale con una bilancia commerciale in attivo nei confronti del Celeste Impero) per il confronto USA-Cina nel Pacifico. Macron ha profittato del ruolo che in questo momento svolge Parigi per porre sul tappeto la sua ira contro…l’IRA (Inflation reduction act): una legge – promulgata a metà agosto, entrerà in vigore il primo gennaio – che ha lo scopo di ridurre inflazione e riscaldamento climatico da inquinamento e potrà utilizzare ben 370 miliardi di dollari! Dopo le prime entusiastiche accoglienze di Ursaula von der Leyen, che aveva capito nulla, in Europa si è sudato freddo, tanto che è stata ventilata anche la possibilità di “ricorrere all’Organizzazione Mondiale del Commercio” perché penalizzerebbe fortemente i prodotti europei. Infatti, solo per le autovetture, significherebbe – ha riportato il ‘Figaro’ – un bonus “di 7500 dollari promessi agli acquirenti di vetture elettriche assemblate negli Stati Uniti” e con batterie che abbiano americano “almeno il 40% del valore dei materiali critici”. Dopodomani si ricercherà una soluzione al contenzioso euro-americano in una “cruciale riunione negli USA del Consiglio Commercio e Tecnologie”.

Insomma, non s’è parlato solo di Ucraina anche se la guerra ha tenuto banco nelle prime tre ore di colloqui diretti, in vista della riunione internazionale del 13 dicembre a Parigi centrata sugli aiuti a Kiev ma che il presidente francese coltivava l’ambizione sfumata di trasformare in una pre-conferenza di pace. Se non di pace, almeno di una tregua sarebbe gran tempo, dopo nove mesi che hanno partorito sangue e devastazioni in Ucraina; precipitato l’Europa in una spirale inflazionistica, nella ricerca precipitosa di fonti energetiche alternative e nell’assedio di un’immigrazione incontrollata; ma soprattutto hanno isolato pericolosamente la Russia, in campo economico e strategico, con il catenaccio NATO nel Baltico a cancellare trent’anni di collaborazione reciprocamente vantaggiosa, e a sud con la pressione sulla base navale di Sebastapoli che Mosca difenderebbe anche con le atomiche. Si insinua in alcune cancellerie l’ipotesi di una tregua che porti ad un armistizio su modello Corea del Nord e del Sud.

Nel bunker di Kiev dov’è rifugiato, il presidente Volodymyr Zelensky tenta di togliere spazio a ogni compromesso. Indossa la solita t-shirt verde militare a mezze maniche che tradisce un discreto riscaldamento interno, fa abbassare un po’ le luci e…ciak, si gira…”La Russia è uno Stato terrorista”, recita invocando – manco a dirlo – ulteriori sanzioni, casomai ne fossero rimaste da adottare, e soprattutto armi, cibo e accoglienza per i concittadini emigranti perché “la guerra finirà solo con la liberazione della Crimea”. Gli fa eco la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il cui ricordo indelebile a Bruxelles sarà affidato alle sole sue giacche multicolori: ha prospettato un tribunale per crimini di guerra contro Mosca – che se ne impipa letteralmente – proprio mentre Zelensky accentua in Ucraina i caratteri di un regime dittatoriale, annunciando nuove restrizioni per la comunità cristiana ortodossa russofona, che s’aggiungono a quelle – spinte fino alla persecuzione – nel Donbass, che costituirono la motivazione del Cremlino per l’improvvida “operazione speciale”.

Quest’ultima guerra tra slavi del nord ha finora provocato, secondo alcuni calcoli, all’Ucraina 7 milioni e mezzo di espatriati, 6 milioni e 800mila sfollati, 40mila vittime civili, 100 mila vittime militari (altrettante le russe), distruzioni per centinaia di miliardi di euro. In Europa la guerra ha arricchito solo Norvegia e Olanda. In Italia la benzina sfiora i 2 euro al litro. Si arrabbiano gli americani che devono sborsare un dollaro per un gallone, che però corrispondono a circa 4 litri. E il dollaro forte li fa pure tornare a viaggiare all’estero. Dopo più di un decennio in America le importazioni dall’UE sono maggiori di quelle dalla Cina. I porti della costa sull’Atlantico tornano a superare per volume di merci quelli californiani e dell’intera costa ovest. Gli investimenti in Europa crescono del 17% (305 miliardi di euro), come le esportazione energetiche (gas e petrolio liquefatto), armi (ad esempio la Germania che ha prenotato 35 aerei da combattimento). La guerra genera, come sempre, lacrime per molti ma non per tutti.

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