Dall’altra sera sappiamo che non ci sono state sorprese dell’ultimo minuto e che i riconteggi delle schede elettorali in numerosi seggi hanno confermato che la partita presidenziale in Turchia si giocherà nei tempi supplementari, al ballottaggio del 28 maggio tra Recep Tayyp Erdogan, il “Sultano”, da vent’anni al potere, e Kemal Kiricdaroglu, il “gandhiano”, lo sfidante ch’era stato dato favorito nei sondaggi. La sorpresa è semmai nell’errore delle società di indagini demoscopiche: affidabilità da previsioni del tempo durante periodi di clima incerto. Il recupero del presidente uscente nelle urne era da mettere in conto per diversi motivi – che, peraltro, elencammo ai lettori – ma occorre aggiungerne un altro che premia su tutti: la tv.
Lo ha spiegato una politologa di Istanbul. S’è fatta un po’ di (laboriosi) conti ed ha rivelato che, in campagna elettorale, Erdogan dal “primo aprile fino all’11 maggio è apparso sul canale tv pubblico TRT per ben 48 ore mentre Kiricdaroglu… 32 minuti!”.
Una buona parte dei circa 65 milioni di elettori (alle urne s’è recato poco meno del 90% ), segnatamente quelli che abitano nelle aree centrali del Paese, s’affida prevalentemente alla sola informazione dei tg e ne viene influenzata. Non a caso, è in quelle regioni che Erdogan – come il suo partito AKP – ha ottenuto la più ampia messe di suffragi, mentre a favore di Kiricdaroglu – e per il suo partito CHP – si sono pronunciate le grandi città (Istanbul, la capitale Ankara) e le zone costiere più sviluppate e frequentate dal turismo. Insomma, è nelle fasce sociali più retrive, patriarcali, islamopraticanti e anti-occidentali, il vasto ‘zoccolo duro’ elettorale del presidente uscente, sulle quali egli punta per la sua rielezione. A sostenerlo la destra islamico-sunnita e imperial-ottomana.
L’altra destra, nazionalista ma laica, è guidata da Sinan Ogan (terzo candidato alla presidenza) che ha ottenuto circa il 5,5% dei voti. Potrebbero essere decisivi ad assicurare la vittoria allo sfidante del “Sultano”, ma Ogan ha condizionato l’appoggio a Kiricdaroglu con l’immediata espulsione dei circa 4 milioni di profughi siriani che affollano – assieme ai migranti illegali che anelano a raggiungere l’Europa – i campi di raccolta. Un ‘contenimento’ che assicura ad Ankara parecchi miliardi elargiti dall’UE. Non solo. Ogan reclama soprattutto la rinuncia all’alleanza con il partito curdo HPD, una condizione che Kiricdaroglu non può accogliere: per motivi ideologici, politici ed elettorali. I curdi dell’HPD sono laici (a differenza dell’altro partito curdo, l’Huda Par alleato di Erdogan), hanno una visione democratica del sistema istituzionale comune con le altre cinque forze della coalizione e rappresentano una porzione consistente dell’elettorato.
Ogan e Kiricdaroglu guidano partiti che fanno entrambi riferimento al laicismo di Kemal Ataturk, padre della patria della moderna Turchia. Un’apparente contraddizione il contrasto fra i due: l’uno, infatti, riecheggia il ‘panturchismo’ ipernazionalista del primo Ataturk; l’altro, invece, cammina nel solco del secondo Ataturk, colui il quale (pur negando per ragioni politiche il genocidio degli armeni e i massacri che s’accompagnarono alla cacciata dei greci) guardava all’Europa e alle sue costituzioni, cancellò califfato ed ulema affermando che “lo Stato dev’essere guidato dal positivismo e non dalla religione”, vietò il velo alle donne perché – come il fez -“può servire solo a chi vuol nascondere il vuoto del suo cervello”, velo il cui uso scoraggiò imponendolo alle prostitute. A Kiricdaroglu è costato non pochi voti essere un alévi e non un sunnita, per di più affiancato da un partito curdo spesso dipinto come una quinta colonna dei separatisti se non dei terroristi del PKK, ma è significativo che abbia voluto testimoniare il suo laicismo andando, alla vigilia del voto, a deporre un mazzo di fiori sulla tomba di Kemal Ataturk, fondatore del Partito popolare repubblicano di cui è ora leader. E proprio mentre Erdogan s’era recato a pregare nella celeberrima basilica cristiano-ortodossa bizantina di Santa Sofia, trasformata in moschea dagli ottomani, sconsacrata e divenuta un museo con Ataturk nel 1934, riconvertita nel 2020 alla condizione di moschea da Erdogan. Lo stesso Erdogan che nel 2013 aveva cancellato il divieto di Ataturk e reintrodotto il velo per le donne.
Al ballottaggio si sfidano, insomma, due modelli di società: la Turchia islamo-conservatrice e nazionalista al punto da negare ancora il genocidio degli armeni e rifiutare ampi spazi di autonomia alla minoranza curda (cui ancora Ankara e la comunità internazionale impediscono di riavere una patria) da un lato e, dall’altro, la Turchia che vorrebbe rivalutare, non certo la prassi (che fu anch’essa spietatamente nazionalista) ma la visione modernista di Ataturk, declinandola però in un contesto pluralista e democratico all’occidentale. Con la riforma costituzionale seguita al fallito golpe del 2016, il referendum dell’anno seguente che ha cambiato il sistema da parlamentare a presidenziale, Erdogan ha esercitato un potere di cui nessuno prima di lui aveva disposto. Sa, quindi, per esperienza personale che sebbene la coalizione che lo sorregge abbia ottenuto la maggioranza assoluta in parlamento (322 seggi su 600), se egli risultasse sconfitto nel ballottaggio la sua coalizione non potrebbe ostacolare in misura sostanziale il riformismo del suo successore.
Sul voto di domenica hanno contato i fattori prospettati nei giorni scorsi e non serve ripeterli. Vale, invece, sottolineare che Erdogan potrà contare su una tv ricca di telespettatori e che ricorderà in particolare il quasi raddoppio degli stipendi – in tempi d’inflazione all’85% – ai 700mila dipendenti pubblici (notevole il numero dei componenti i nuclei familiari); la promessa di realizzare 650mila nuove case in tempi brevi nelle zone terremotate; lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini di gas e le forniture di petrolio dai Paesi ai quali Ankara offre aiuto militare; gli investimenti colossali nella Difesa; e il peso internazionale acquisito negli ultimi anni che hanno permesso ad Ankara di contare nella Nato e di mediare tra Russia e Occidente; di riproporsi come potenza regionale nel Caucaso (dove arma gli azeri); e di contendere l’influenza di Pechino e di Washington in un Centrasia che Mosca stenta a mantenere nella propria orbita. Uno status che fa presa sull’orgoglio della comunità turca all’estero, dove risiedono 6 milioni e mezzo dei circa 92 milioni di turchi.
Ora tocca a Kiricdaroglu smentire i sondaggi. Vedremo se ribaltare le previsioni sarà o meno una ‘mission impossible’. Oggi possiamo dire che certamente è un compito estremamente difficile.
Almerico Di Meglio (Napoli, 1948), giornalista professionista dal 1981, già inviato speciale all’estero e notista di politica italiana. Vive tra Napoli, l’isola di ischia e Parigi. Ha fatto parte dal 1979 al 2009 della redazione de “Il Mattino”. Caposervizio e inviato della Redazione Esteri ha scritto da molti Paesi: dall’Europa dell’Est e dell’Ovest, divise dalla Cortina di ferro, agli Stati Uniti e al Canada, dall’America Latina all’Africa Australe e del Nord, dall’Asia centrale e segnatamente dall’ex Unione Sovietica. Successivamente ha lavorato alla Redazione Politica. E’ esperto di relazioni Est-Ovest, di questioni geopolitiche e geostrategiche. Ha pubblicato “Tra le rovine dell’impero sovietico (Università Popolare di Torino editore, 2015).