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Turchia, domenica al voto: un pacifista sfida il “Sultano”

Recep Tayyp Erdogan, “il Sultano”, rinuncerà al potere se verrà sconfitto nelle elezioni presidenziali? E’ il dubbio che attanaglia l’eterogenea opposizione raccoltasi all’ultimo minuto dietro Kemal Kiricdaroglu, da molti definito “il gandhiano”. Ed è l’interrogativo che si pone la diplomazia internazionale. Non a caso, l’ ‘Economist’ le ha definite le più importanti consultazioni dell’anno.

Il padre-padrone della Turchia è l’alleato necessario ma sospetto dell’Europa nella NATO e l’amico altrettanto necessario e altrettanto sospetto della Russia. E’ il leader sopravvissuto al golpe militare del 2016  e che ha rivoltato come un calzino i vertici delle forze armate per renderle strumento del suo potere. E’ il capo di Stato che ideologicamente ha disconosciuto il patriottismo laico kemaliano per riecheggiare il nazionalismo imperial-islamico ottomano, storicamente nemico dell’Europa come della Russia. E’ il fanatico ideatore di una filosofia economica, l’ ‘ergodanomics’, che punta a sconfiggere l’inflazione con la principale sua causa, i bassi tassi d’interesse. Ma non ha potuto abolire del tutto – a dispetto delle persecuzioni e degli imprigionamenti dei suoi oppositori e della spietata repressione della minoranza curda – il sistema elettorale democratico all’occidentale.

Ha giocato il tutto per tutto, persino attendere la vigilia delle elezioni presidenziali di domenica per annunciare un aumento, ch’è quasi il raddoppio, dello stipendio ai 700mila dipendenti statali. E c’era da aspettarselo: con l’inflazione che galoppa e supera l’85%, anche una paga mensile fiondata ai 700 euro rischiava di non rassicurare sufficientemente a lungo un bacino d’elettori parecchio vasto, data la quantità dei nuclei familiari, ma soprattutto potenzialmente decisivo in una competizione che – a fidarsi delle indagini demoscopiche – si giocherà sul filo del rasoio domenica o al ballottaggio.

Oltre all’inflazione che ha impoverito la borghesia turca, contro la rielezione di Erdogan – da un ventennio al potere – concorrono altri fattori. 1) Le conseguenze del terremoto, a febbraio, nelle province del sud che ha mietuto almeno 50mila vittime e messo in piena luce quanto fosse radicata e diffusa, nel ‘cerchio magico’ del vertice dello Stato e nelle sue diramazioni, la corruzione che accompagnava le colate di cemento di pastafrolla e di denaro. 2) L’insopportabile peso dell’immigrazione per una non piccola parte della popolazione, a dispetto della pioggia di miliardi assicurata dai Paesi europei per ‘immagazzinare’ nei campi di raccolta oltre 4 milioni di profughi (segnatamente dalla Siria ma non solo) e per contenere il flusso incessante di immigrati clandestini pure diretti verso l’UE, business anch’esso miliardario per mafie locali e internazionali. 3) L’irritazione  sia della borghesia cittadina impoverita – già manifestatasi con la vittoria di candidati dell’opposizione nelle elezioni svoltesi nelle maggiori metropoli (a cominciare da Istanbul e dalla capitale Ankara) – sia l’insostenibilità della spirale dei rincari persino nel mondo rurale alieno alla società dei consumi sviluppatasi lentamente nei decenni scorsi nelle città e lungo la costa raggiunte e frequentate dalle correnti turistiche. 4) I nuovi elettori, ben 5 milioni, i quali – se saranno anche votanti – si sommeranno in buona parte al numero, vieppiù ampio, delle donne che contestano il neoislamismo retrogrado imposto da Erdogan in contesti lavorativi e di vita sociale, in un Paese già caratterizzato da spiccato maschilismo in ambito familiare. 5) La capacità di Kiricdaroglu, settantaquattrenne, che guida il Partito repubblicano ed è riuscito nel miracolo di associare sei partiti eterogenei e alquanto litigiosi in una coalizione affascinata dalla sua strategia del sorriso: appare infatti convincente, e non solo alla popolazione culturalmente più evoluta, per il suo equilibrio; per la prospettiva di maggiore tolleranza politica, religiosa e sociale; di fiducia in una giustizia che riguadagni merito e rispetto; per la pacatezza nei propositi e l’equilibrio che trapela dai suoi programmi. Il messaggio può sintetizzarsi nell’uomo giusto per un progresso più laico e tranquillo. 

A favore di Erdogan si sommano fattori diversi. 1) Il perdurante astio verso la ‘famiglia europea’ in alcuni strati della popolazione per l’attesa – di decenni e inconcludente – dell’adesione all’UE. 2) Il timore, segnatamente tra gli elettori più anziani, di tensioni o scontri o sconvolgimenti di un passaggio di poteri all’opposizione che venga ostacolato con la forza da Erdogan. 3) La speranza, o l’illusione, che il programma di ricostruzione post-terremoto promesso dal presidente riassicuri un tetto a tutti e un iniziale recupero di benessere collettivo attraverso l’indotto: il capo di Stato ha assicurato l’immediata ricostruzione di 100mila abitazioni, comprese in un piano che ne prevede 650mila complessive, delle quali la metà addirittura in un anno: tempi corti, anzi cortissimi, cui i muratori ‘devono’ credere dopo la calamità subìta. 4) La promessa di forniture gratuite di gas dal prossimo sfruttamento dei giacimenti del Mar Nero, parallelamente al petrolio, quello che dovrà sgorgare dalle future estrazioni dai giacimenti nel Mediterraneo orientale e quello come compenso di sostegni militari (in Azerbaijan e in Libia), al pari delle risorse minerarie provenienti da altri Paesi africani. 5) Il prestigio riscosso da Erdogan in ambienti tradizionalisti, di estrema destra (sia nazionalista sia islamista) e tra gli emigrati elettori all’estero, che gli deriverebbe dalla crescente posizione internazionale della Turchia e dal suo rafforzamento militare. 6) Il favore recuperato nelle forze armate, testimoniato dal numero di aziende che ruotano attorno alla Difesa (aumentate da 556 a circa 2700); dalla quantità degli investimenti (ne sono previsti ulteriori per 5 miliardi di dollari che si sommeranno ai 600 finora effettuati); dall’acquisizione di status di grande esportatore d’armi (si pensi ai droni Baykar, prodotti dal genero di Erdogan); dal nuovo carro armato di produzione nazionale e soprattutto dalla nuova portaerei-portaelicotteri-portadroni; dall’esercito divenuto il più numeroso, dopo quello USA, dell’Alleanza Atlantica. 7) L’ondata di arresti che alla vigilia e durante la campagna elettorale ha indebolito le file dell’opposizione.

Ma basterà tutto questo a consentirgli la vittoria?

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