Dopo due mesi di blocco per l’emergenza Coronavirus, con l’allentamento del lockdown oggi s’è riavviata faticosamente anche la macchina giudiziaria con lunghe file, caos e disagi al Tribunale di Napoli (nella mancanza, peraltro, di adeguati dispositivi per proteggersi dal contagio). Un disordine organizzativo che secondo gli avvocati discende anche dalla mancanza, in Italia, di indicazioni governative che valgano per tutti, per cui ogni ufficio giudiziario si regola in maniera diversa… Oltre 150 “repubbliche autonome”. Gli uffici dei giudici di pace, per esempio, sono aperti a Verona e non a Napoli, etc etc … Gli avvocati napoletani, presieduti da Antonio Tafuri, hanno scritto al ministro Bonafede per invitarlo a limitare queste discrezionalità. Chiedono una norma che faccia uniformare gli uffici giudiziari a regole certe e uguali per tutti. E servono anche strumenti che assicurino ragionevoli condizioni di accesso, in sicurezza, alle strutture (come sanificazione, vigilanza, termoscanner). Tutto ciò, mentre si tenta di “far passare” lo smart working anche in ambiti dove la mancanza di un confronto dal vivo lederebbe i diritti della difesa.
Gli avvocati stigmatizzano anche la decisione del presidente della Corte di Appello di differire al 4 giugno la riapertura delle udienze davanti al giudice di pace. L’allarme è lanciato da Rossella Barone dell‘Associazione coordinamento magistratura giustizia di pace: “Già il 6 febbraio avevamo anticipato allo Stato una situazione di emergenza, anche perché moltissimi colleghi andavano alla Caserma Garibaldi per la convalida degli extracomunitari … Chiedevamo misure urgenti, presidi sanitari adeguati”. Adesso si ipotizza la ripresa il 4 giugno, come sarà? “Disastrosa. In questi due mesi”, aggiunge la Barone, “anche noi giudici di pace, insieme con i presidenti e il Consiglio dell’Ordine degli avvocati, abbiamo collaborato per preparare la ripartenza. Una ripartenza adeguata anche alla situazione dei giudici di pace. Non bisogna dimenticare che siamo magistrati privi di retribuzione, di previdenza, di assistenza, e quindi ci troviamo in una situazione assai critica”. “Amministriamo il 65-70% del contenzioso nazionale”, conclude la Barone, “il che vuol dire che la nostra attività condiziona anche quella degli studi professionali, degli avvocati. Oggi, bloccarli – dopo che si è cercato di trovare soluzioni – vuol dire non far ripartire questo Paese, e soprattutto negare l’accesso alla giustizia al cittadino”.
Senza un’Avvocatura forte, ogni diritto è debole. Dopo una intensa attività consultiva con la magistratura non si è approdati a soluzioni condivise. E adesso tutti in ordine sparso.