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Egitto e Giordania hanno chiesto ieri un “immediato cessate il fuoco” a Gaza…

Egitto e Giordania hanno chiesto ieri un “immediato cessate il fuoco” a Gaza, accusando Israele di infliggere una “punizione collettiva” alla popolazione palestinese, “affamandola” per “forzarla all’esodo”. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sissi e il re giordano Abdallah II temono apertamente una deriva dell’azione militare nella striscia di Gaza che sfoci in “una catastrofe regionale”. Sangue, profughi, destabilizzazione e nuovi conflitti. Egitto e Giordania sono i due Paesi mediorientali che hanno firmato un trattato di pace con Israele, rispettivamente nel 1979 e nel 1994. Pagò con la vita quell’atto di grande coraggio il capo di Stato egiziano Muḥammad Anwar al-Sadat, assassinato due anni dopo, il 6 ottobre del 1981.

Vedremo se, e a quali condizioni, Benjamin Netanyahu, accetterà di fermare l’operazione militare. La diplomazia tenta di trovare la strada di un negoziato che appare, in questo momento, obiettivamente estremamente difficile, se non impossibile. A Tel Aviv il premier britannico Rishi Sunak è giunto in missione mentre la scia dell’Air force one ancora segnava il cielo diretto a Washington. Joe Biden era giunto in Israele poche ore dopo che il cancelliere tedesco Scholz s’era congedato dal premier israeliano. L’arrivo di Biden tra quelli del primo ministro del maggiore Paese dell’Unione europea e del maggiore alleato – e ‘parente’ anglosassone – nel Vecchio Continente ma che dall’Ue s’è sfilato. L’una e l’altra visita dei leader europei d’insignificante, o quasi, peso strategico immediato. Al pari della passerella dei vertici di Bruxelles che le hanno precedute. Fallimento anche della missione di Joe Biden? Sì, però… Segna un fallimento se si pensi che doveva essere una missione in Medio Oriente, e non solo per il mancato summit ad Amman. Ma potrebbe rivelarsi un successo a metà perché, come ha sottolineato pure nel suo discorso alla nazione, ha riaffermato dinanzi al mondo arabo – già con lo stesso primo viaggio di un presidente statunitense nella capitale di un Paese alleato in guerra, poi con le sue dichiarazioni – da che parte sta l’America, anzi dove resta: a fianco di Israele, l’unica vera democrazia in Medio Oriente.

Le portaerei Usa sono lì come mònito verso chiunque (Teheran) osasse interferire nel conflitto. Non solo. Dopo aver confermato la versione israeliana sul massacro all’ospedale, opera di Hamas, ha dischiuso l’uscio che Nethanyau voleva serrare su Gaza, con il convoglio di cibo per i civili palestinesi che significa l’invito a una futura ripresa del dialogo, tuttavia sottolineando che se dovesse essere “confiscato da Hamas” la guerra sarà più dura. Non fa purtroppo marcia indietro, Biden, dall’errore strategico di scontro con Mosca: chiede al Congresso altri stanziamenti per avere un ruolo più incisivo in Medio Oriente ma pure per dare altre armi al regime di Kiev, associando malamente le due crisi, e perciò si ritrova Vladimir Putin riaffermare – da Pechino, a fianco di Xi Jinping – il diritto della Russia a ‘vegliare’ sul Medio Oriente (pattugliato dai Mig31 con missili…intercontinentali Kinzhal) perché Mosca è amica sia di Israele, dov’è significativa la presenza di popolazione d’origine russa, sia del suo massimo nemico, Teheran. Chi più e meglio del Cremlino potrebbe mediare? E la Duma, la Camera russa, gli fa la eco revocando all’unanimità il trattato Ctbt sul bando degli esperimenti nucleari, interrotti dalla vigilia del crollo dell’Urss (e poco dopo, nel 1992, dagli Stati Uniti, che il trattato rispettano ma senza averlo mai formalmente ratificato).

Ieri le piazze del Medio Oriente erano nuovamente stipate di folle inviperite (di soli uomini) per il massacro all’ospedale di Gaza. Si svuotano, a cominciare da Beirut, le ambasciate israeliane e si programma di ridurre sensibilmente il numero dei funzionari nelle sedi diplomatiche occidentali, o si continua a farlo con discrezione. A nulla valgono le spiegazioni di Tel Aviv e di Washington che incolpano Hamas e che fino a prova contraria un fondamento pur hanno, dal momento che le strutture dell’ospedale – gli stessi infissi e finestre – appaiono intatti e manca il cratere provocato da una bomba. Peraltro, il ‘cui prodest’ indica Hamas, che incita alla vendetta le masse arabe. Perde consistenza la tesi che sia scoppiato un arsenale del movimento terrorista, che li nasconderebbe nel sottosuolo di moschee ed edifici civili. Le immagini della città devastata riportano alla memoria quelle di Stalingrado e Varsavia, Dresda e Berlino – prodromi di quelle apocalissi che subirono Nagasaki e Hiroshima, bruciate coi loro abitanti dal fuoco atomico – e altre immagini, decine e decine, d’altre città devastate dai bombardamenti…

La tenaglia su Gaza potrà solo allentarsi, Hamas continua a lanciare razzi e “dev’essere distrutta” e nello stesso tempo le centinaia di ostaggi liberati. Come? Lo sanno solo gli strateghi che studiano e pianificano le operazioni. Chi ieri ha acquistato il ‘Roma’ avrà letto sul ‘Giornale’ (associato nell’acquisto) l’analisi di Edward Luttwak, della Georgetown university. E’ uno dei maggiori esperti di strategia globale, prezioso consulente del Pentagono e di governi di altri Paesi. Uno squarcio di luce nel buio del futuro che attende Gaza. Chi scrive fu forse il primo a indicarlo ai lettori italiani – allora del ‘Mattino’ – dopo averlo ascoltato a metà degli anni Ottanta, una vita fa, in un convegno (apprezzato da Francesco Cossiga) di studiosi occidentali di questioni strategiche. Era il più giovane di quelle ‘teste d’uovo’ che nutrivano l’intellighenzia della Nato. Da allora è un volto noto in Italia e un cervello tra i più attrezzati. Lo ha dimostrato ancora una volta ieri.

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