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De Santis e le incognite sulla strategia degli USA

Press Conference with Florida Governer Ron DeSantis during the 2020 Arnold Palmer Invitational, Bay Hill in Orlando Florida on Wednesday March 4, 2020. Photo Credit: Marty Jean-Louis

“I grandi avvenimenti giungono a volte sui passi felpati dei colombi”, sosteneva Friedrich Wilhelm Nietzsche. E tutto lascia pensare che avesse ragione. Perché tutto è – o sembra in alcuni casi – in movimento: da Washington a Kiev, da Mosca a Pechino, da Bruxelles ad Atene, da Ankara a Riyad, da Tel Aviv a Pretoria e a Brasilia… Tutti fili che si dipanano per raggomitolarsi e nuovamente diramarsi e ancora accorparsi.

Negli Stati Uniti il governatore della Florida Ron De Santis, spalleggiato da un geniale visionario del calibro di Elon Musk, padrone di twitter, ha lanciato il guanto di sfida a Donald Trump nelle primarie del partito repubblicano per le presidenziali dell’anno prossimo. I sondaggi danno Trump al 56% e al 20% lui, convinto di poter rimontare. L’annuncio di De Santis quasi s’accompagna, nel partito democratico, con il velenoso complimento sul ‘Financial Times’ di Hillary Clinton rivolto a Joe Biden presidente uscente e ricandidatosi: “Ha governato molto bene“, ha affermato, ma per tirar su un sospiro e aggiungere: “Gli elettori, però, hanno il diritto di valutarlo anche per la sua età”. Ed è noto che ogni tanto Sleepy Joe scambia cavoli per mirtilli.

Ma a preoccupare gli americani è la notizia del debito stratosferico USA (31mila500 miliardi di dollari) e l’inflazione che neppure gli alti tassi d’interesse sono a tutt’oggi serviti a frenare. L’amministrazione e i Dem vorrebbero innalzare lo stesso debito pubblico, i repubblicani, che controllano la Camera, chiedono invece tagli alle spese statali. Lo speaker repubblicano della Camera Kevin McCarthy ha confermato che nell’ultimo incontro col presidente “non c’è stato alcun accordo con l’amministrazione”. E ancora ieri la segretaria al Tesoro, Janet Yellen, ha ricordato che il tempo stringe: in cassa restano solo 57 miliardi di dollari e dal primo giugno non si potrebbe più far fronte agli impegni”.

Un allarme che ha spinto uno dei più noti economisti,  Jeffrey Sachs, a puntare il dito apertamente contro Biden, per la guerra in Ucraina e non solo, e contro il “complesso militar-industriale” che, forte dell’appoggio mediatico e politico dei ‘neocon’, sostiene spese tali per le forze armate nazionali (e di quelle di alcuni Paesi amici) che divorano le finanze degli USA: corrisponderebbero a circa il 40% delle spese militari di tutto il pianeta! Una denuncia dai toni veementi e documentata del Mic (Military-industrial complex) che “a partire dal 2000 ha spinto gli Stati Uniti alla scelta di guerre disastrose in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e ora in Ucraina”. Una denuncia che ha spinto Trump ma pure Robert Kennedy jr , sceso in campo nelle primarie del partito dell’Asino, a diffonderla nel timore che il Mic  premesse per attenuarne gli effetti mediatici. Ma lo stesso ‘New York Times’, pur apertamente filo-democratico, ha pubblicato una decina di giorni fa una lettera – firmata da 14 ex alti esponenti delle forze armate, della sicurezza nazionale e della diplomazia – di severa critica verso le scelte di politica estera fatte dalla Casa Bianca.

Rappresentano una svolta nel conflitto russo-ucraino i nuovi e più violenti attacchi per terra e dal cielo alla Russia, iniziati all’indomani dell’annuncio di Biden al G7 della prossima fornitura al regime di Volodymyr Zelensky dei jet F-16 Fighting Falcon e di un nuovo pacchetto di aiuti per circa 400 milioni di dollari. A naso, i nuovi attacchi servono a Zelensky per bilanciare la perdita di Bakhmut e l’errore di definirla adesso “inutile strategicamente” dopo averla sempre giudicata importantissima e la cui vana difesa è costata parecchie migliaia di morti (in genere le perdite provocate all’avversario vengono moltiplicate per dieci e quelle subìte simmetricamente diminuite). Ma i nuovi attacchi con droni e con incursori rappresentano anche una promessa. Infatti, è noto – e lo ha pure confermato il ‘New York Times’ – che gli americani addestrano 9 delle 12 brigate ucraine preparati da istruttori in Occidente. E di là dalle assicurazioni sull’impiego dei caccia all’interno dei confini nazionali (a Mosca e a Kiev considerati peraltro diversamente), le forze armate ucraine potranno colpire ancor più efficacemente e in profondità nel territorio della Federazione russa. Capacità, peraltro, finora già ampiamente testimoniata dalle forze di Kiev sia con la repressione nel Donbass dal 2014 al 2022 (14mila morti di cui 10mila circa russofoni), sia nell’ultimo anno con la lunga catena di attentati e agguati nelle aree occupate e riannesse da Mosca, così come all’interno della stessa Federazione russa.

Significativo l’ennesimo mònito di Vladimir Putin: “Accusano la Russia di aver iniziato un conflitto (quando invece) con un’operazione militare speciale sta cercando di fermare la guerra condotta da nove anni contro il nostro popolo che, a causa di una ingiustizia storica, è finito (in Crimea e nel Donbass) fuori dai confini dello Stato russo (ma che resta) comunque il nostro popolo e faremo di tutto per proteggerlo”. E Dimitry Medvedev, l’ex capo di Stato adesso vicepresidente del Consiglio di sicurezza: la Nato “non prende sul serio lo scenario di un conflitto e un’apocalisse nucleare altrimenti non fornirebbe armi così pericolose al regime ucraino”.

La Russia, man mano che l’Occidente accresce le sanzioni, stringe purtoppo con la Cina i rapporti sia strategici, sia commerciali. A Pechino è giunto il primo ministro russo con al seguito una super-delegazione di imprenditori e ‘grand commis’ di Stato: il timore di Mosca è che Pechino ceda nel sostegno alla Federazione per i contraccolpi economici che sta subendo per il ‘decoupling’ industriale occidentale che ridimensiona la globalizzazione così fruttuosa per la Cina. Preoccupano il Cremlino gli incontri tra ministri e delegazioni cinesi ed occidentali (statunitensi in primis) ma il contenzioso su Taiwan attenua le diffidenze. E appaiono benvenute le nuove e più amichevoli politiche di alcuni Paesi (come Brasile, Arabia Saudita, Sud Africa), la persistente collaborazione con l’India, i buoni rapporti con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan (che con il sostegno della destra di Sinan Ogan ha accresciuto le probabilità di rielezione), e l’aumento nelle opinioni pubbliche di importanti Paesi europei delle posizioni favorevoli a un negoziato con la Russia che preveda la rinuncia di Kiev a regioni storicamente russe. Ma vedremo se le prossime elezioni europee, che  potrebbero portare a mutamenti a Bruxelles e a Strasburgo, saranno più o meno favorevoli a una soluzione diplomatica più pragmatica e rassicurante del conflitto.

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