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Zelensky non può vincere. E Putin non può perdere

Lo spettro di una nube radioattiva riappare sul cielo dell’Ucraina per i bombardamenti sempre più pericolosamente vicini alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, “a pochi metri” dai due reattori ancora in funzione. Ma il regime di Kiev insiste sulla necessità di continuare la guerra finché Donbass e Crimea non vengano riconquistati. E Mosca ribadisce che il suo obiettivo è una pace negoziata ma sul riconoscimento dello statu quo: lo scopo dell’ “Operazione speciale” non è (più) quello di abbattere il regime ucraino e sostituirlo con uno simile a quello di Viktor Yanukovich – presidente democraticamente eletto poi costretto alla fuga a cavallo del 2014 – bensì di liberare il Donbass russofono dalla repressione e difenderlo assieme alla Crimea, che era Russia ed è tornata a farne parte. L’altro ieri il viceministro degli Esteri russo, Sergej
Ryabkov, ha spiegato che la posizione del Cremlino non è mutata di una virgola: “Siamo incrollabili nella difesa della nostra integrità territoriale, che comprende i territori recentemente riannessi”. Quasi contemporaneamente a Kiev sia il presidente Volodymyr Zelensky, sia il suo principale consigliere Mikhailo Podolyak avevano ribadito l’inutilità di trattative che potrebbero avere il solo risultato di offrire allo stato maggiore russo il tempo di riorganizzare le forze, proprio quando la stessa “Crimea potrebbe essere liberata in un paio di mesi” con una probabile uscita di scena di Vladimir Putin e la fine del conflitto entro primavera. Previsioni a dir poco ottimistiche, una sicumera a dir poco preoccupante.
Volodymyr  Zelensky e il suo regime non sembrano più in perfetta sintonia con Washington e neppure con alcune cancellerie europee, a dispetto della missione del neo premier britannico, Rishi Sunak, corso a Kiev con la promessa di 57 milioni di sterline e un migliaio di missili anti-aerei, suscitando le prime polemiche perché l’Inghilterra in recessione non riesce a quadrare i conti. Zelensky serve – nella visione del presidente Joe Biden e dei suoi collaboratori – solo a premere sulla Russia, a indebolirla. Sarebbe stato scongiurato iI rischio di una potenza euroasiatica trainata dalla macchina industriale tedesca rifornita di carburante e protetta dai missili russi. Un pericolo, agli occhi della Washington Dem (i democratici), cui la Washington
GOP (i repubblicani)  non credeva, Trump preoccupandosi piuttosto di tenersi buona la Russia nella sfida del Pacifico con la Cina, dove i due giganti sono impegnati a contendersi il ruolo primario in una egemonia planetaria possibilmente condivisa.
 A Zelensky viene riservato un ruolo che sul palcoscenico mondiale possa soddisfare un attore che s’è rivelato abilissimo – a cominciare dalla cura per l’immagine – nel solidificare identità e orgoglio nazionali (ma a due terzi degli ucraini e sulla pelle del terzo russofono della popolazione):  gli vengono promessi prestiti a buon mercato per la ricostruzione (che plachino i sopravvissuti perché i morti non protestano);  gli sono assicurati onori e ovazioni (nutriti dalla grancassa della propaganda ‘made in USA’); prospettate finanche pagine di storia (almeno per il tempo che resiste la storiografia dettata dai vincitori presunti o reali);  e continueranno ad essere taciuti i crimini della repressione interna, né verrà sollevata la coperta sui massacri
di prigionieri, le retate e le fucilazioni di “collaborazionisti” e “attivisti pro russi”, gli agguati, gli omicidi mirati, gli attentati (senza il clamore di quello ad Aleksandr Dugin e alla figlia). E chissà che un giorno scopriremo – come avvenne per Katyn ma a parti invertite – anche altre nefandezze compiute dagli ucraini e addossate ai russi, che pure ne han fatte… E’ la oscena logica della guerra.
Ma guai a Zelensky  se non rispetta i limiti impostigli. E’ tempo di sperimentare il negoziato. Pentagono e CIA avvertono, ora, ciò che i massimi esperti di strategia globale avevano predetto: Kiev non può vincere, così come Mosca non può perdere. Perciò contatti diretti e indiretti sempre più fitti tra Washington e Mosca; a Bali il primo timido disgelo tra Biden e Xi Jinping;  il rinnovo russo delle forniture di grano garantito da Putin a Erdogan… Ma Zelensky rifiuta il negoziato e pone condizioni inaccettabili per  trattare:teme che, in base a un’indagine demoscopica, il 67% di concittadini che ne condividono l’agire e il 71% di favorevoli a proseguire la guerra pur di riprendere la Crimea e l’intero Donbass lo abbandonino;  teme, il
regime di Zelensky, che il patriottismo senza eguali e la coraggiosa disponibilità al sacrificio dimostrato dagli ucraini (ai russi ma anche a una Europa incapace persino di controllare valichi e porti) si tramutino in ira, e guai a lui, se si rivelassero inutili al recupero del territorio; teme che venga riconsiderato e diversamente valutato il rifiuto di Kiev sia della neutralità (che avrebbe rassicurato Mosca sulla NATO ed evitato l’attacco russo), sia al rispetto dell’autonomia pur concessa sulla carta e poi negata all’area russofona, con la conseguenza di un conflitto che ha procurato all’Ucraina immani distruzioni e devastazioni, decine e decine di migliaia di vittime, milioni e milioni di rifugiati all’estero. Di fronte a questa prospettiva, Zelensky è arrivato addirittura ad accusare la Russia per il missile ucraino che ha colpito la Polonia. Simile alle smentite sulla responsabilità dell’attacco al ponte Kerch, al porto di Sebastopoli, alle condotte Nord Stream: stavolta, però, il tentativo di far arenare sul nascere il negoziato si accompagna al rischio di superare la “linea rossa” di un apocalittico confronto diretto NATO-Russia.
Ed ecco che l’accusa di Zelensky a Mosca viene smentita subito dallo stesso presidente americano. Non solo. Emergono le prove dell’attentato alla condotte sottomarine (“Il gasdotto Nord Stream è stato colpito da un grave sabotaggio”, dichiara il procuratore svedese Mats Ljungqvist, che ha indagato sull’esplosione di fine settembre). Appare il video sull’esecuzione di prigionieri russi (dopo atrocità passate sotto silenzio o solo accennate, sacrificate alla “verità unica” del regime di Kiev: una versione della guerra a senso unico, né più e né meno di quella offerta da Mosca ai russi ma più indecente perché rivolta a cittadini di democrazie mature). E giunge il monito della direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva, che
paventa sommovimenti sociali in un mondo sovrappopolato e interdipendente per le conseguenze del
conflitto in Ucraina (“L’insicurezza sul futuro danneggia la crescita socio-economica nel mondo”). Serpeggia finalmente nelle cancellerie, e quindi fa pure capolino tra gli opinionisti, una punta di fastidio per l’”ostinazione” del presidente ucraino che insiste sull’azione militare.
E’ tempo di negoziato. Il vento, peraltro, non spira più impetuoso come prima. Potrebbe ridursi il flusso di decine e decine di miliardi di dollari in armamenti verso Kiev (e non solo) ora che la Camera dei Rappresentanti è in maggioranza GOP. In Europa, peraltro, Biden ha raggiunto il suo scopo: la NATO è rinata come araba fenice dallo stato pre-agonico in cui versava, allargata a tutta l’area dell’ex Patto di Varsavia s’è espansa a nord, inglobando addirittura Paesi scandinavi di radicata neutralità, con una cerimonia d’adesione appena rinviata al pagamento dell’ennesimo sonante obolo alla Turchia di Recep Tayyp Erdogan. La flotta russa è “chiusa” nell’enclave di Kalinigrad (l’ex  Koenisberg di Immanuel Kant) proprio mentre il surriscaldamento climatico spalanca le rotte dell’Artico: Mosca si sente circondata e non
permetterà mai che anche la flotta del sud venga strangolata in Crimea, che perda Sebastopoli e il controllo del Mar d’Azov e del Mar Nero. S’avvicina, inoltre, velocemente in Ucraina l’inverno paralizzante, per uomini e manovre militari, mentre Sergej Vladimirovich  Surovikin non accenna a diminuire la sua azione devastatrice sperimentata con successo in Siria.
Da cinque anni comandante delle forze aerospaziali russe, è da un mese responsabile delle forze impegnate nell’ ”Operazione Speciale”: speciale – fino al suo arrivo – per fallimento sia nella preparazione (forze di leva, quindi efficienti al minimo, e per giunta insufficienti: 120mila a fronte di 170-180mila per una linea lunga, in​ Italia, dalle Alpi alla Sicilia), sia nella tattica militare, mutevole come i comandanti al fronte. Poi è arrivato lui, Armageddon, com’è soprannominato Surovikin dopo aver cancellato dalla carta geografica siriana a suon di bombe l’ISIS, il cosiddetto Stato Islamico dei terroristi fondamentalisti sunniti.  Armageddon sta
“smontando”, pezzo a pezzo, ponti e centrali elettriche (con la distribuzione d’energia ormai ridotta alla metà), centri di ricerca e depositi, fabbriche e non solo d’armi, e altre strutture e infrastrutture che rendono agli ucraini rimasti in patria la vita ancor più tragica. Per risparmiare energia elettrica la vicepremier Irina Vereshchuk sollecita la popolazione ad abbandonare i centri più colpiti e semmai ad espatriare, riecheggiano le assicurazioni – l’ultima in ordine di tempo del viceministro della Difesa Volodymyr Havrylov – che “le forze ucraine rioccuperanno la Crimea entro fine dicembre e (continuando a combattere) la guerra finirà in primavera, quando Mosca avrà svuotato i depositi d’armi”. Può darsi. Nella Federazione russa, però, saranno anche entrati in produzione i droni iraniani. E ammesso che Putin perdesse il trono, a occuparlo potrebbe anche essere non un pacifista ma un Dmitry Medvedev.
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