Un dipinto raffigurante Carlo di Borbone

di Gennaro De Crescenzo

Era la mattina del 10 maggio del 1734, era un lunedì ed esattamente 285 anni fa la città di Napoli era pronta per una festa che non era nuova nella sua storia: stava per arrivare un nuovo re. Ma quella sarebbe stata una festa diversa perché stava per fare il suo ingresso nella capitale del viceregno prima spagnolo e poi (per pochi anni) austriaco un ragazzo di diciotto anni, magro, con i tratti chiari e un naso abbastanza pronunciato. Era Carlo di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese e quella mattina iniziava la storia autonoma del Regno di Napoli e poi delle Due Sicilie. I nobili lo aspettavano a Porta Capuana, il corteo si mosse lento e solenne tra monete d’oro e d’argento lanciate ad una grande folla, colpi di cannone a salve in lontananza, tante coperte colorate ai balconi, fazzoletti bianchi e grida di “viva ‘o rre”. Da via Tribunali al Duomo, da Spaccanapoli a via Toledo: iniziava così la storia di una Napoli capitale tra le poche, vere capitali del mondo insieme a Parigi, Madrid, Vienna e Londra. Difficile sintetizzare le opere di Carlo di Borbone, III di Spagna, VII di Napoli. Ci basterebbe pensare che, quando dobbiamo ben figurare magari nei vertici internazionali dei nostri tempi, dovremmo ringraziare re Carlo: la reggia di Caserta e di Portici, quella di Capodimonte con le fabbriche di porcellana, gli scavi di Pompei ed Ercolano con l’Accademia Ercolanese e la nascita, dalle nostre parti, del Neoclassicismo, il Teatro San Carlo costruito in meno di sei mesi (“non vi è nulla di simile in tutta Europa”, scrisse il famoso Stendhal) e, ancora, strade, piazze, porti, l’Acquedotto Carolino (fantascientifica e colossale opera che portava l’acqua da Benevento a Caserta fino a Napoli), il Foro Carolino (attuale piazza Dante, con le statue che riproducono le virtù del re), il palazzo dei Regi Studi diventato Reale Museo Borbonico con la collezione Farnese ereditata e lasciata alla città (attuale Museo Archeologico Nazionale) o anche il Real Albergo dei Poveri, città nella città, con una delle facciate più grandi mai costruite e migliaia di poveri assistiti ma anche formati nelle più diverse professioni (e oggi conosciamo tutti i limiti dei rapporti tra scuola e lavoro in luoghi, come i nostri, che “vantano” ormai solo i primati della disoccupazione).

 

Napoli e il regno diventarono un enorme cantiere sempre aperto, meta preferita dei grandi viaggiatori internazionali, con una corte frequentata da gente del calibro di Gaetano Filangieri, ispiratore della costituzione americana e del concetto della “felicità dei popoli”, di Genovesi, con la prima cattedra di economia al mondo, di Sant’Alfonso de’ Liguori, autore di trattati teologici ma anche della popolarissima “Quanno nascette Ninno” o del Principe di Sansevero con i suoi misteri e le meraviglie della sua cappella e di musicisti come Scarlatti, Pergolesi, Cimarosa o Paisiello, autore anche dell’inno nazionale del Regno (fu la scuola musicale napoletana a formare il giovane Mozart). E fu sempre Carlo a riformare leggi e codici imitati e invidiati da tante altre nazioni e a riformare il sistema fiscale a vantaggio di chi non era ricco. Intanto, a 22 anni, il timido e malinconico re di Napoli aveva sposato una quattordicenne bionda, altera e con gli occhi azzurri: Maria Amalia di Sassonia, dalla quale avrebbe avuto (tradizione borbonica e napoletana) ben 13 figli e tra essi Ferdinando, futuro re 7 Ferdinando IV. Ma, tra le tante storie legate alla storia di Carlo, ci piace ricordare un episodio poco conosciuto: fu chiamato a Madrid come re di Spagna (era il 6 ottobre del 1759) e tra migliaia di persone accorse, in lacrime, per salutarlo, si tolse un anello che gli era stato regalato durante gli scavi di Pompei perché “apparteneva allo Stato”. E preferiamo evitare confronti con gli attuali politici.

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