la tangenziale più antica
La Tangenziale di Napoli (AGNFOTO)

Di strade tangenziali al centro cittadino, Napoli è pioniera. Si considerava tale la strada carrozzabile di Toledo, voluta nel 1536 dal viceré Don Pedro de Toledo per collegare agevolmente la vecchia città alla nuova residenza vicereale, che poi sarebbe stata demolita nel 1600 per fare spazio al nuovo Palazzo Reale di Domenico Fontana. L’asse stradale fu ricavato interrando il Chiavicone, una fogna ad alveo aperto che, da Montesanto, scendeva verso il mare raccogliendo l’acqua piovana e i liquami della collina del Vomero. L’aspetto di strada urbana iniziò ad assumerlo quando il Viceré fece edificarvi a ridosso, sul declivio della collina di San Martino, i nuovi quartieri dei militari spagnoli. Tre secoli dopo, nel 1853, Ferdinando II di Borbone spostò l’attenzione sulla zona a monte dei “quartieri spagnoli”, costellata da alcuni edifici religiosi espropriati nel precedente periodo napoleonico, fornendo delle indicazioni all’architetto urbanista Errico Alvino affinché progettasse e realizzasse un asse viario a scorrimento veloce sul tracciato periferico di un antico sentiero che aveva consentito ad Alfonso d’Aragona nel Quattrocento e ai giacobini nel 1799 di spostare velocemente le truppe militari da un capo all’altro della città, in modo da allacciare l’estremo orientale di Napoli a quello occidentale, e sfoltire il traffico di carrozze a Toledo e nel resto del centro. Alvino previde tre fasi di realizzazione per congiungere Piedigrotta con Capodimonte, e poté avviare velocemente i lavori per il primo tratto, dal Santuario della Madonna di Piedigrotta di Mergellina fino al complesso monastico di Suor Orsola Benincasa, passando per il Convento di Santa Lucia al Monte, completato in circa un mese e mezzo. Ferdinando II, dopo l’iniziale denominazione di strada delle Colline, intitolò la tangenziale alla consorte regina Maria Teresa, e fece divieto, con un lungimirante rescritto reale in materia di tutela e difesa paesistica, di edificazione sul lato panoramico della nuova strada affinché fosse preservata la vista del golfo, del Vesuvio e della città bassa. Le cronache del tempo riportarono apprezzamenti da ogni parte d’Europa per una “superstrada” incredibilmente panoramica a mezza costa che fu definita “il più bel loggiato del mondo”. Il secondo tratto, dal Suor Orsola Benincasa alla via dell’Infrascata, l’attuale via Salvator Rosa, fu portato a compimento nel 1873, dopo l’invasione sabauda, quando il toponimo corso Maria Teresa fu mutato in corso Vittorio Emanuele. Decaduti i vincoli paesaggistici borbonici, le banche piemontesi edificarono anche sul lato panoramico, e per noi è facile notare la differenza estetica tra il tratto borbonico e quello “piemontese” di una strada oggi congestionata dal traffico di una città che l’ha ingoiata. Il terzo tratto, dall’Infrascata alla strada per Capodimonte, fu addirittura cancellato, insieme a tutto lo sviluppo dell’area di Materdei. Un secolo dopo, in piena epoca di automobili e di più alte velocità, venne il tempo della prima vera autostrada urbana d’Italia, la Tangenziale di Napoli, l’unica opera pubblica realizzata in città nel dopoguerra prima della costruenda nuova metropolitana. Progettata negli anni Sessanta, in pieno miracolo economico, perché fosse un ponte viario da oriente a occidente, l’arteria è oggi una lunga striscia d’asfalto lunga 21 km che, da Casoria, si arrampica sulle colline di Capodimonte, dei Camaldoli e del Vomero per poi adagiarsi sulla zona flegrea verso Pozzuoli, raccordandosi infine con la via Domitiana. Come per la via Toledo e per il Corso Vittorio Emanuele, dopo l’abnorme sviluppo metropolitano, di strada tangente alla città non è più possibile parlare. Si tratta di una superstrada urbana che mostra il suo buon progetto, sul piano tecnico superiore persino al G.R.A. di Roma e alle tangenziali milanesi. Manca una corsia di emergenza, ma le soluzioni utilizzate consentirono di adattare il percorso alla particolare conformazione geologica tra mare e collina. Basti pensare alla galleria che attraversa il vulcano della Solfatara, che sopporta una temperatura di 40°, e al solido viadotto di Capodichino, che per 1.360 metri sorvola la città, capace di resistere indenne al terremoto del 1980 e di attirare l’interesse degli ingegneri giapponesi che accorsero a studiarlo. La Tangenziale di Napoli fu pensata proprio come autostrada, e infatti la denominazione ufficiale è “Autostrada A56”, con tanto di caselli e pedaggio, retaggio della sua costruzione. È una storia tutta napoletana, contrariamente a quanto accade a Roma, ma pure a Milano e a Torino, dove il pedaggio si paga solo in pochi punti di raccordo autostradale. L’infrastruttura fu ideata, progettata e realizzata con capitale interamente privato, primo esempio in Italia di project financing: 70% Iri, 15% Sme, 15% Banco di Napoli, senza finanziamenti dello Stato. Costruzione ed esercizio furono affidati alla Infrasud S.p.A. del gruppo Iri-Italsat, con denominazione “Tangenziale di Napoli S.p.A.”. Il pagamento del transito servì per sostenere i notevoli investimenti iniziali. 300 lire nel 1972, all’apertura al traffico del primo tratto Domitiana-Fuorigrotta. Oggi se ne pagano praticamente 1.840. Un tributo dovuto fino al 2001, per una convenzione della durata di trentatré anni tra Anas e società di gestione firmata il 31 Gennaio del 1968. Quando l’accordo scadde, il dazio proseguì nonostante l’assenza di motivazioni ufficiali, e per sette anni. La convenzione fu rinnovata nel 2008, con l’impegno da parte dell’azienda ad effettuare una serie di opere che giustificassero il prolungamento del balzello. Venduta dallo Stato ad Atlantia, società di cui è azionista principale la famiglia Benetton, la Tangenziale è presieduta da Paolo Cirino Pomicino. Il pedaggio, il cui 30% finisce al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, è anche causa di congestione del traffico, specialmente nelle ore di punta, e appare come un’iniqua tassa a carico degli automobilisti napoletani, anche in virtù del fatto che, dopo quarantacinque anni di esercizio, i costi iniziali sono stati ampiamente ammortizzati. Vero è che per l’arteria è predisposta una manutenzione d’eccezione, con una ripavimentazione costante, decine di telecamere su tutto il percorso (gallerie comprese, ndr), una complessa sala monitoraggio, tutor, barriere fonoassorbenti e display informativi. Un costo dimezzato, probabilmente, renderebbe più equo l’obolo a garanzia degli ottimi standard che la strada offre, ma nessuno dei soggetti interessati sembra disposto a fare un passo indietro.

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