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Il rito del caffè a Napoli

storia e segreti di una magia

Pensi a Napoli e irrompono in mente certe parole obbligate che parlano di lei e le fanno da sinonimi fuori dai suoi confini. Tra queste c’è indiscutibilmente il caffè, rito che affonda il suo vero radicamento nel Settecento illuminista, quando nell’antica capitale borbonica si beveva almeno una tazzina al giorno, tradizione talmente salda da aver consacrato in Italia e nel mondo la definizione di “espresso napoletano”, l’interpretazione partenopea della nera bevanda, già diversa da quella più ampiamente italiana. Sì, perché il caffè non è una creazione napoletana ma una sublimazione, come tante altre ricchezze gastronomiche non nate attorno al Vesuvio ma qui esaltate. La pianta del “qahwa”, questo il nome arabo che significa “eccitante”, è originaria dell’Abissinia, l’attuale Etiopia, e da lì si diffuse in Arabia e in Turchia. Proprio a Costantinopoli, nel 1554, fu aperto il primo locale di degustazione di “kahve”. Nel Seicento, partendo proprio dall’Impero Ottomano, i chicchi neri giunsero in Europa a bordo delle navi dei mercanti veneziani, dove il “kahve” fu italianizzato in “caffè”. Ma fu Vienna la prima città europea a farne una vera e propria istituzione, dando vita, alla fine del XVII secolo, ai primi “Kaffeehaus”, i famosissimi caffè viennesi, locali di piacevole degustazione dell’antico “vino d’Arabia”. Il caffè vi fu portato dal pascià Kara Mahmud, ambasciatore turco alla corte dell’imperatore Leopoldo I, e il primo locale viennese fu inaugurato nel 1685 dall’armeno Johannes Diodato, residente nella capitale austriaca, che già da tempo serviva caffè di contrabbando. E così Vienna divenne il trampolino di lancio della cultura del kaffee, nonché il punto di partenza di un ponte culturale con Napoli concretizzatosi un secolo dopo. Il caffè, in realtà, giunse in territorio vesuviano proprio attraverso Venezia, ma non si diffuse come altrove. La Chiesa ne ostacolava l’uso, considerandolo portatore di malocchio, ma poi la forte corrente anticlericale partenopea del Settecento spazzò via anche certe dicerie. Nel 1768 giunse a Napoli la viennese Maria Carolina D’Asburgo-Lorena, figlia di Maria Teresa d’Austria, data in sposa a Ferdinando IV di Borbone. Fu proprio lei, laica e di forti tendenze massoniche, a dare impulso massiccio all’importazione del caffè e a radicarne la tradizione nella cultura napoletana. La diplomazia asburgica aveva interpretato il matrimonio tra una Asburgo e un Borbone come strumento di sottrazione del Regno di Napoli dall’influenza spagnola, obiettivo politico che passò anche attraverso l’affermazione del costume viennese nell’etichetta di corte. La nuova autoritaria sovrana ingaggiò immediatamente una guerra intestina a corte con il primo ministro Bernardo Tanucci, rappresentante delle ingerenze del suocero Carlo di Borbone da Madrid, e il caffè assunse funzione diplomatica sull’asse Vienna-Napoli. La giovane nordica la esercitò immediatamente, tant’è che già nel 1771 la colta gentildonna inglese Lady Anne Miller annotò in un resoconto di un ballo di corte di aver visto alla Reggia di Caserta la sala del caffè, dove l’infuso veniva preparato e servito dietro alcune tavole da servitori in livrea bianca con berretti in testa. Si trattava evidentemente di uno dei primi bar del Regno di Napoli. Maria Carolina era sorella di Maria Antonietta, data in sposa a Luigi XVI di Francia. Furono proprio le due sorelle austriache a creare i presupposti, a Napoli e a Parigi, per il più classico abbinamento mattiniero della nostra colazione al bar. Da Vienna giunse nelle due capitali il kipferl, “mezzaluna” in lingua tedesca, l’invenzione del fornaio Peter Wendler, ovvero un panetto a forma del simbolo della bandiera turca da divorare metaforicamente, creato per ricordare la vittoria della cristianità durante l’assedio ottomano di Vienna del 1683. Il kipferl divenne “croissant”, cioè “crescente”, a Parigi, e “cornetto” a Napoli, legandosi alla popolare scaramanzia apotropaica della città. L’abbinamento col caffè fece così il suo ingresso nella cultura delle due capitali. Due deliziose vienneserie insieme, una turca di adozione austriaca e l’altra austriaca di ispirazione turca, prima che la colazione conoscesse a inizio Novecento la fortunata variante del cappuccino. Ed eccoci nell’Ottocento, con l’invenzione a Napoli della “cuccumella”, la caffettiera napoletana, che alternava il metodo di preparazione per decozione alla turca al metodo di infusione alla veneziana, con un sistema a doppio filtro. Invece di cuocere la polvere dei chicchi macinati, come si fa ancora oggi in Turchia e Nord Africa, stemperandola con l’acqua in un bricco di rame riscaldato, il nuovo metodo di cottura alla napoletana diffuse il filtraggio dell’acqua bollente, fatta colare dall’alto attraverso la polvere di caffè. Datata 1819, per mano del francese Morize, la cuccumella consentì la preparazione domestica, mentre all’interno del parco della villa Floridiana l’archietto Antonio Niccolini realizzava una kaffehaus, un padiglione distaccato per i ricevimenti in stile neoclassico pompeiano, poi ribattezzata villa Lucia, in onore di Lucia Migliaccio, moglie morganatica del vedovo Ferdinando. Più in là negli anni, nel primo Novecento, sarebbe nata la moka piemontese, e poi, nel 1884, la macchina per espresso da bar, anch’essa inventata in Piemonte ma finita sotto le abili mani dei maetri caffettieri napoletani, che diedero impulso all’esplosione dei locali da caffè lungo via Toledo e nelle strade attorno al porto. Per storia e radicamento, l’unica tradizione in Italia che può affiancarsi alla napoletana è quella di Trieste, e non è un caso. La città giuliana era il principale porto dell’Impero Asburgico quando Maria Carolina regnava a Napoli, e da lì accedevano alle scorte di caffè provenienti dalla Turchia. Ma senza nulla togliere al pur forte rapporto tra la città alabardata e il caffè, la miscela triestina non conserva in sé le peculiari caratteristiche di tostatura della napoletana. Il vero segreto dell’espresso napoletano non sta certamente nell’acqua del Serino, talmente buona da alimentare numerosi luoghi comuni sul tema, ma è invece racchiuso proprio nella particolare tostatura dei chicchi, che conferisce loro una più scura colorazione rispetto a quella delle altre regioni italiane e straniere. Si dice della miscela napoletana che “é cotta al punto giusto”, ossia è spinta al limite. Ciò significa che le è prestata una grande attenzione durante il processo di torrefazione, che se fosse solo di poco più lunga causerebbe la bruciatura dei chicchi. Questa specifica attenzione riduce l’acidità ed esalta, dopo qualche giorno di riposo, gli oli essenziali che contribuiscono a una migliore estrazione degli aromi. Tutta questa esclusiva lavorazione a monte, unita alla maestria nelle manovre alla macchina per espresso, conferisce il caratteristico gusto al caffè napoletano, da apprezzare pulendosi prima la bocca con un sorso d’acqua. Un gusto corposo per via di una percentuale di qualità robusta unita all’arabica, ma anche forte e deciso nel retrogusto, dal tono amaro ma non acido, diversamente da Trieste, dove si predilige un infuso delicato, fruttato e dolce nel retrogusto. Due filosofie diverse e una radice comune, quella asburgica.

L’arte dei pizzaiuoli che arriva dal Settecento

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