il napoli orgoglio del sudNapoli, simbolo di appartenenza territoriale, riferimento principe di una vasta provincia che, coi suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione e la nona d’Europa, e non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a Roma, Milano, Torino e in tutti i maggiori centri del Vecchio Continente. È questo unicum la vera forza economica del Napoli, che così riesce a rappresentare il quarto bacino d’utenza d’Italia, dietro Juventus, Inter e Milan, e a guadagnare buona fetta dei diritti televisivi, la cui quarta parte viene suddivisa in base ai sondaggi commissionati dalla Lega Calcio sulle dimensioni delle varie tifoserie. Se tantissimi napoletani amano il monolito azzurro, pochissimi conoscono la storia del Club, oscurata nelle sue vere origini confuse, sbiadite dalle perniciose vicende della spaccatura iniziale del calcio italiano, che dal 1898 al 1926 ghettizzò il Sud, coinvolgendo il football nelle differenze sociali tra le due Italie. Mentre in Alta Italia il primissimo Genoa Football and Cricket Club, avversato dalle squadre di Milano e Torino, vinceva scudetti in serie nel campionato del “triangolo industriale”, che tale era perché disputato da soli soldalizi di Liguria, Lombardia e Piemonte, nel Meridione ci si doveva arrangiare con incontri amichevoli e competizioni non riconosciute dalla Federazione, di casa a Torino prima di spostarsi a Milano. A Napoli tutto prese corpo con la fondazione, nel 1902, di un sodalizio nell’area puteolana e con il trasferimento in riva al Golfo, nel 1903, di William Poths, un impiegato della compagnia navale inglese Cunard Line, che nel 1904, con alcuni soci napoletani, costituì il Naples Football and Cricket Club. Fu questa la squadra che, insieme all’Unione Sportiva Internazionale Napoli del 1911, contese alle squadre siciliane la Lipton Cup, un torneo annuale organizzato dal magnate britannico Thomas Johnstone Lipton, impegnato in Italia nell’import-export del tè lungo la rotta del Canale di Suez, che individuò nelle squadre di Campania e Sicilia le compagini di maggior livello tecnico meridionale e le mise in competizione, sapendo che i calciatori residenti tra Genova, Torino e Milano non avevano alcuna intenzione di salire su un treno per recarsi a giocare a Napoli, Messina o Palermo. Il problema era che pure i più talentuosi calciatori del Sud, misurandosi con i peggiori, non miglioravano, mentre le squadre del “triangolo” continuavano a progredire e a mettere ingiustamente scudetti “italiani” in bacheca. E allora il rappresentante dell’Internazionale Napoli, Mario Hector Bayon, si presentò in un’accesissima assemblea federale per chiedere più giustizia alla FIGC, la quale mise una pezza istituendo, nel 1912, due raggruppamenti territoriali: uno del Nord, con Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto, e uno del Centro-Sud, con Toscana, Lazio e Campania; tutto il resto escluso. Le vincitrici dei due raggruppamenti si sarebbero affrontate in una finalissima che avrebbe designato la squadra campione d’Italia. In realtà la Federazione era ben consapevole che le finalissime avrebbero assunto un valore pro forma senza alcun significato tecnico-agonistico. La vera finale del campionato italiano, in realtà, sarebbe stata la partita per designare la vincitrice del torneo settentrionale, tant’è che il titolo del 1915, rimasto vacante per la sospensione dovuta allo scoppio della Grande Guerra, fu poi assegnato al Genoa, in testa al girone Nord al momento dell’interruzione, nonostante al Sud l’Internazionale Napoli, il Naples e la Lazio si stessero contendendo il titolo territoriale. La scissione calcistica delle due Italie perdurò, passando per l’annuale scisma del 192122 scaturito dalla volontà dei grandi club del Nord di estromettere col “patto di Milano” il resto d’Italia dalla competizione. Nell’estate del 1922 si fusero il Naples e l’Internazionale Napoli, dando vita all’Internaples Football Club, la cui presidenza fu assunta da Emilio Reale. Era nato il Napoli per come lo conosciamo oggi, in maglia azzurra, anche se la vulgata comune sposta la fondazione più in là di quattro anni. Qual era la motivazione del colore? C’è chi oggi avanza il colore della casata borbonica, chi al colore del mare, magari rifacendosi alle giubbe dei marinai mercantili delle Cunard Line, ma sulla scelta della cromia non esiste alcuna testimonianza documentale. Nel 1925, la precaria situazione finanziaria della squadra partenopea convinse Reale a cedere il club al facoltoso commerciante Giorgio Ascarelli, non il primo ma il secondo presidente della storia del nostro Napoli, che investì qualche denaro e portò la compagine a giocarsi, con esito infelice, la finale di Lega Sud contro l’Alba Roma, valevole per l’accesso all’inutile finalissima nazionale per lo scudetto. Solo allora irruppe il regime fascista, impegnato nel processo di “nazionalizzazione” del Regno d’Italia anche attraverso l’imposizione di competizioni nazionali che dissimulassero le disparità di un divario complessivo. Il calcio italiano non poteva mostrare disgregazione sociale, e perciò il CONI fascista impose d’ufficio alla FIGC l’unificazione delle due leghe territoriali in un’unica ‘Divisione Nazionale’. La saldatura fu attuata in modo graduale, privilegiando inizialmente e politicamente solo i sodalizi delle grandi città, due di Roma e uno Napoli. Quelli del Nord protestarono inutilmente per le decisioni superiori, riunendosi più volte a Genova, Torino e Milano, ritenendo inadeguate le tre squadre imposte e usurpatrici di posti spettanti al Calcio settentrionale. A Napoli, a quel punto, si pose un problema serio. Mussolini detestava gli inglesismi, e pur italianizzando il nome Internaples ne sarebbe venuta fuori la “Internazionale”, che ricordava l’Internazionale comunista, avversaria politica del Fascismo. Il presidente Ascarelli suggerì allora la più opportuna adozione del semplice nome italiano della città. Il primo giorno di Agosto del 1926 l’assemblea dei soci formalizzò semplicemente un cambio di nome di una società fondata nel 1922: da Internaples Foot-Ball Club ad Associazione Calcio Napoli. Il giorno seguente, 2 agosto, la Commissione di Riforma dell’Ordinamento della Federazione emanò ufficialmente la ‘Carta di Viareggio’, con cui nacque il primo campionato unito. L’interessamento del Governo risolvere, almeno formalmente, una questione che si sarebbe trascinata per molti anni, legittimando le aspirazione a progredire della squadre e dei calciatori del Sud. Il Napoli si presentò con un nuovo stemma: il Corsiero del Sole, un cavallo sfrenato, emblema della città capitale dal XIII secolo, simbolo dell’indomito popolo partenopeo. A conferma che non si trattò di fondazione, nella nuova rosa figurarono otto elementi della stagione precedente, compreso quell’Attila Sallustro che sarebbe diventato in seguito l’idolo dei tifosi. Anche il colore della maglia era lo stesso, cioè il misterioso azzurro. I risultati della prima stagione contro i colossi del Nord fruttarono un solo punto in classifica e trasformarono, per tradizione orale, il cavallo sfrenato in ciuccio malandato, che però divenne mascotte e non stemma, pur comparendo sulle maglie del Napoli della stagione 1982-83, quando il corpo del ciuccio fu rappresentato da una enne sormontata da una testa orecchiuta. La enne napoleonica, in un banale carattere Times New Roman, spuntò nell’epoca maradoniana, secondi anni Ottanta, quando il patron Corrado Ferlaino, borbonico incallito, accontentò probabilmente un desiderio della moglie Patrizia Boldoni, grande appassionata della figura dell’Imperatore. Aurelio De Laurentiis, nella rinascita del club fallito, ripropose la enne in maniera ancor più minimalista, libera dalla denominazione sociale attorno. Il britannico Daily Mail l’ha inserita tra i dieci stemmi più brutti del mondo, e in effetti, pur avendo creato affezione nei tifosi, si tratta di un simbolo dallo scarsissimo valore comunicativo. Forse una rivisitazione, per un club meridionale che prova a sabotare il potere del Nord sempre esistente, non sarebbe operazione sterile.

Per approfondimenti: Dov’è la Vittoria – Angelo Forgione (Magenes, 2013)

La Tangenziale più antica?

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