Castel Capuano,che un tempo è stato sede della sezione civile e penale del tribunale di Napoli, risulta essere, prima ancora di Castel dell’Ovo, il più antico castello della città. Fu costruito nella metà del XII secolo, di origine normanna e prende il suo nome dalla vicinanza con Porta Capuana. Una storia misteriosa è legata al castello, una storia che vede come protagonista la bella Giuditta Guastamacchia: una donna vedova e madre di un figlio. Giuditta fu rinchiusa dal padre in un convento e ci rimase per ben dieci lunghi anni. In quel convento conobbe don Stefano d’Aniello, un prete, con il quale iniziò una relazione amorosa. I due rimasero amanti anche quando la donna andò via dal convento, ma il prete pensò che bisognasse trovare una copertura per non fare venir fuori la verità sulla loro tresca amorosa. Così don Stefano finse di essere suo zio, ma questo non sarebbe bastato, e allora decide di darla in sposa al nipote di soli sedici anni. Quando il nipote si rese conto dell’inganno decise di ritornare nel suo paese di origine, lasciare Giuditta, e denunciare l’accaduto. I due amanti per evitare di essere scoperti, decisero di uccidere il giovane. La donna chiese anche aiuto al padre per compiere tale delitto, raccontandogli che il giovane marito l’aveva picchiata e derubata. Il padre decise di aiutarla insieme ad altri due complici: il chirurgo e il barbiere. Fu inviata una lettera al giovane, per fargli credere che Giuditta volesse tornare insieme a lui, ma la lettera era colma di inganni. Infatti, appena tornato a Napoli fu strangolato. Il prete fu l’unico a sentirsi in colpa per il delitto e se ne uscì di casa. Onde evitare che il corpo fosse riconosciuto, Giuditta pensò di farlo a pezzi e ogni complice ne prese una parte. In questo modo non sarebbero risaliti all’identità dell’uomo, e lei non avrebbe rischiato di diventare la prima sospettata dell’omicidio. Ma il barbiere, complice del delitto, fu scoperto dalle guardie durante un controllo di routine: le guardie aprirono il sacco e trovarono macabra prova. Durante l’interrogatorio il barbiere confessò il crimine e fece i nomi degli altri complici, che nel frattempo intuendo che le cose si stavano mettendo male, scapparono. La fuga fu alquanto breve: arrestarono Giuditta, il padre, il prete e il chirurgo a Capodichino. Dopo un processo a Castel Capuano furono tutti condannati a morte, tranne il prete, l’unico a non essere presente al momento del crimine. In piazza delle Pigne, l’attuale piazza Cavour, i tre furono impiccati. Dei tre, Giuditta subì la peggiore pena: dopo l’impiccagione, le tagliarono anche le mani, che insieme alla testa, furono esposte sul graticciato della Vicaria. L’impiccagione avvenne il 199 aprile del 1800, e da quel giorno si racconta che ogni anno in quella data, il fantasma di Giuditta, detta “il fantasma degli avvocati”, si aggiri tra le stanze dell’ex tribunale, emettendo urla e lamenti o rovistando tra le vecchie carte del tribunale ancora presenti nel Castel Capuano. All’interno del Museo Anatomico di Napoli sono ancora conservati i teschi di Giuditta, del padre e dei complici: oggetto di studio per la fisiognomica criminale.