
Musica. La band napoletana presenta il nuovo album: gli eroi, ovvero i protagonisti, sono le persone comuni
Sono una delle band napoletane maggiormente apprezzate per la qualità della musica e dei testi. Il 10 novembre uscirà per Full Heads il loro secondo album, “Parco Sofia”, che arriva a distanza di tre anni dal successo de “O’ Vicolo ‘e l’Allerìa”. Si chiamano “La Maschera” (in foto) in omaggio a Pirandello e a Eduardo e per marcare il dualismo insito nella realtà che raccontano nelle canzoni. Eppure quando incontriamo Roberto Colella, il frontman, la sua spontaneità disarmante, sembra quasi far pensare a un ossimoro dietro quel nome artistico che lo identifica. Arriva da via Manzoni, dove abita adesso, ma la prima cosa che dice tra una chiacchiera e un caffè è: “sono di Villaricca”. Villaricca è la terra di origine di Sergio Bruni, di Peppe Lanzetta, di Pino Mauro. E allora viene da chiedersi se una piccola parte di questo talento sia da attribuire a quella terra. Viene da chiedersi se non sia un po’ un “vicolo ‘e l’allerìa”, quel “luogo che è un paradiso immaginario”. Anche “Parco Sofia” è un luogo. Come afferma Roberto però “è più reale de ‘o vicolo, ma mantiene quella veste un po’ magica di posto che non esiste, idilliaco, dove esistono dei valori che sono quelli, ma amplificati e perciò quasi fittizi. Le storie però partono tutte da immagini accadute realmente”.
Che storie racconta “Parco Sofia”?
“Sono storie di vita o storie di viaggi. Alcune sono mezze vittorie, altre sono
sconfitte, come il pezzo “Signora vita”, che racconta proprio questo. Poi c’è “Binario 23”, che è la storia di un barbone che stava sempre a quel binario, alla stazione. Lo vedevo ogni volta che partivo: stava steso e ogni volta che passava il treno si alzava. Non ci ho mai parlato ma ho immaginato una storia”.
Hai affermato che le vostre canzoni sono «racconti di un mondo dove gli eroi sono persone comuni». Di chi parliamo?
“In questo mi rifaccio alla frase di Lucio Dalla: «l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale». Credo che chi accetta la sua condizione di normalità probabilmente sia una persona eccezionale più di chi tenta di essere ciò che non è. Nel disco c’è un brano che si chiama “Case popolari”, che ne è un po’ la sintesi: racconta di queste persone, e ognuna di loro nei primi due versi sembra un eroe
e negli altri due pare nu pover’homme, che poi è davvero nu pover’homme, ma come tutti in fondo”.
E poi ci sono i bambini come in “Dimane comm’ ajere”…
“Io mi sento molto bimbo. Nel brano “Me sento sicuro” dico che «la paura mia chiù grossa è chella de no guardà ogni cosa come fosse ‘a prima vota» che è poi la bellezza dei bambini che provano stupore per ogni cosa. Il motivo della presenza di un bambino in “Dimane comm’ ajere” o in copertina, riassume quello che è il disco: un bambino che viaggia su una piroga senegalese, fluttuando tra i vicoli del centro storico. È il mondo visto con gli occhi di quel bambino”.
Che legame c’è tra queste due realtà?
“I punti in comune sono molti. In Senegal però è come se fosse tutto amplificato: a Napoli ci sono i poveri? Lì sono più poveri. E poi la dignità, la bellezza nell’affrontare la vita, la disponibilità della gente. Napoli è una città che si fa notare per la sua bontà, ma lì si affronta tutto con il sorriso e non esiste il tempo: ce verimm aropp’ può essere tra due ore o tra due giorni”.
Insieme alle contaminazioni la vostra musica si caratterizza anche per le tante collaborazioni con altri artisti napoletani. Lo stesso avviene anche in quest’album che vede la partecipazione di Gnut, Daniele Sepe, Dario Sansone, solo per citarne alcuni. Quanto conta oggi, con le difficoltà che caratterizzano la scena musicale, saper collaborare?
“Alcune di queste collaborazioni erano nell’aria. C’erano già rapporti di amicizia con Dario dei Foja o con Tommaso Primo, ad esempio. Poi ho avuto la fortuna di conoscere Daniele Sepe, che ritengo sia uno dei più grandi musicisti che abbiamo. Penso faccia davvero bene a Napoli questo clima, questo svestirsi di questa patina d’ego che distrugge tutto, e spero si arrivi al punto in cui si faccia musica solo per fare musica e non per avere successo ed essere riconosciuti per un selfie. Quello è solo vanità”.
E se guardi alla tradizione e ai grandi successi del passato, cosa ti piacerebbe aver scritto?
“La canzone napoletana l’ho scoperta tardi, prima ascoltavo prevalentemente musica straniera, niente a che vedere con quello che poi ho fatto. La tradizione mi ha sconvolto, ci sono passaggi armonici incredibili, dei testi di una poesia talmente grande che fanno paura. Penso a E.A. Mario o a Di Giacomo che scrivevano canzoni come “Era de’ maggio”. Ecco, per questa canzone venderei un braccio per potere averla scritta. Dante Alighieri nel 900 non avrebbe scritto la “Divina Commedia”, no, “Era de’ maggio” avrebbe scritto!”.