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Dal Babà alla Pastiera fino al Fiocco di neve: l’evoluzione della Pasticceria napoletana

di Gennaro Avano

Uno dei vanti della gastronomia napoletana è senz’altro quello della pasticceria; abbiamo già visto come un tempo – fino a metà Ottocento – in questa categoria gastronomica erano compresi tutti i pasticci, sia dolci che salati, inclusi i timballi e i paté. Ebbene noi crediamo che solo a Napoli (e in Sicilia) sia sopravvissuta in parte questa concezione dal momento che le pasticcerie più prestigiose espongono con i dolci anche rinomati tipi salati come Panini napoletani, crocchette di patate, frittatine di maccheroni e besciamella, etc.

Ci soffermiamo tuttavia sul genere dolce che nel secolo scorso ha dato lustro e rinomanza a questo settore gastronomico, conquistando negli ultimi decenni un consenso globale. Un discorso sulla pasticceria napoletana non potrebbe che cominciare con la Sfogliatella, dolce dell’evo rococò portato a notorietà nei primi dell’ ‘800 dall’esercente napoletano Pasquale Pintauro. Si dice che il Pintauro, nel 1818, venuto in possesso della ricetta segreta del convento di Conca de’ Marini, lo commercializzò con una lieve semplificazione rispetto alla versione conventuale (che era più grande e con finitura di amarena). A questa prima narrazione si oppone quella della notissima gastronoma Jeanne Caròla Francesconi che, in forza di alcune tracce trovate su antichi giornali in suo possesso, ritenne la ricetta riferibile al Convento “Croce di Lucca” in Napoli. Indipendentemente dagli ideatori, siano essi i religiosi dell’uno o l’altro convento, alla fine fu il Pintauro a mettere a punto la versione commerciale della sfogliata riccia. Sull’onda del successo propose per il medesimo ripieno, costituito da crema di ricotta, semolino, cannella, vaniglia e canditi, anche un “abito” di pasta frolla, detta appunto frolla. Una variante più moderna di questo dolce è, infine, la versione Coda d’aragosta, con l’involucro di pasta sfoglia e il ripieno di crema chantilly. Altro grande successo di Pintauro fu la commercializzazione della zeppola di San Giuseppe un dolce tipicamente casalingo, già diffuso in tutto il Meridione, apportando quelle modifiche necessarie che la resero poi celebre e ascritta alla pasticceria napoletana.


Benché per i napoletani la Sfogliatella sia il simbolo della propria pasticceria il dolce napoletano più noto è il Babà, una tipologia non strettamente partenopea ed elaborata nel XVIII secolo. Esso rappresenta perciò una tipologia ascrivibile ad un repertorio aristocratico internazionale e pare sia frutto dell’inventiva del sovrano di Polonia Stanislao Leszczynsky.


Altro caposaldo dell’arte dolciaria napoletana è la simbolica e rituale Pastiera pasquale che con i suoi tradizionali ingredienti: grano cotto, crema, ricotta e profumi di fiori d’arancio, rappresenta la primavera, ovvero, la rinascita e, per il mondo cristiano, la Resurrezione. Le prime tracce del suo nome attuale le troviamo nell’opera seicentesca “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile che la cita assieme al Casatiello. Abbiamo visto però che non sempre il nome corrisponde al tipo gastronomico che conosciamo, del resto nel tardo settecentesco Cuoco Galante del Corrado questo nome non compare e quello che potrebbe esserne l’omologo, la Torta di frumento, ha dei tratti che la rendono ancora distante dalla versione moderna.
Oggi la Pastiera è un prodotto sia casalingo che commerciale, il suo recente successo globale ne ha però appannato il valore simbolico. In ragione della massiccia richiesta essa viene prodotta sia a Pasqua (che è – storicamente – la sua stagione) che a Natale e, purtroppo, i primi a dimenticare tale aspetto culturale sono stati proprio i napoletani sopraffatti dalla sua bontà.

Fino a non molto tempo fa i dolci del periodo natalizio erano principalmente (o esclusivamente) i tradizionali secchi tra i quali primeggia l’antichissimo Mostacciolo che prende il nome dalla presenza del mosto nell’impasto. A testimonianza della sua vetustà ne ricordiamo gli antesignani citati in Ateneo di Naucrati ( Moustakia ex oinomelitos in “Il panettiere” di Crisippo, I deipnosofisti), in Apìcio (Petasonem et musteis [X-VII] De re Coquinaria) e altri autori latini. Nello sviluppo della manualistica gastronomica troviamo il medesimo impiegato come addensante delle quattrocentesche zuppe di Ruperto de Nola e citato col nome di mostaccioli napoletani da Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Pio V nel pranzo “alli XVIII di ottobre”. La confusione culturale dei tempi presenti non ne ha offuscata la notorietà, sicché ancora oggi il Mostacciolo insieme ai duri Roccocò, ai Susamielli e al morbido e glassato Raffiuolo allietano le tavole natalizie.


Riferibili alle medesime festività, nel napoletano, sono pure gli Struffoli (dal greco strongylos) che troviamo anche in altre provincie dello stesso Meridione ma legati ad altre stagioni e feste. Troviamo inoltre le cosiddette Paste reali (frutti di marzapane) che pure presenti a Napoli da secoli, e prodotte da pasticcerie napoletane, vengono ancora riconosciute siciliane. La pasticceria ha però anche una veste ordinaria, tipico infatti il traffico di vassoietti domenicali tenuti per il nastro da aspiranti fidanzati o nonni che desiderino vedere la gioia dei nipotini. L’assortimento delle paste domenicali ha pure quattro o cinque punti fermi e, fatti esclusi i citati Babà e Sfogliatella, abbiamo gli Sciù, choux, alle creme; la Cassatina napoletana, caratteristica cupoletta di glassa bianca e la ciliegia candita sulla sommità; la Zuppetta, declinazione napoletana del Diplomatico e il Babà alla crema. Degni di una menzione anche gli estivi Coviglie e Spumoni forse oggi rari ma originali prodotti della gelateria partenopea.


Dulcis in fundo, è proprio il caso di dire, le divertenti consacrazioni delle ultime entrée nell’albo dei classici della dolciaria napoletana. La prendiamo larga e ricordiamo innanzitutto quella del tardo ottocentesco Ministeriale, un biscotto al cioccolato che, brevettato dalla rinomata Pasticceria Scaturchio, costò al fondatore Francesco Scaturchio una tale trafila burocratica da indurlo, ironicamente, a dedicarlo ai Ministeri che aveva dovuto scomodare. Più recente la Delizia al limone (marzapane pesante di base, panna fresca e crema al limone sfusato) creata negli anni ’70 dal maestro Carmine Marzuillo fu battezzata in un meeting di cucina a Formia presieduto dal grande Luigi Carnacina, il nostro “Escoffier”. Per concludere parliamo dei giorni nostri constatando come l’estro napoletano sia ancora straordinariamente vivace.

L’ultima invenzione dell’ingegno dolciario napoletano è infatti di di recentissima forgia e si tratta del tipo declinato in due versioni – simili ed entrambe straordinariamente buone – che sono il Fiocco di Neve di Poppella e la Nuvola di Infante i quali già varcano, richiestissimi, i confini regionali.

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