Ottantatré anni di inquinamento a Bagnoli, più altri ventisei di immobilismo, di sprechi, di disastri ambientali, mentre il mondo ha camminato e in certi casi anche corso, e le città europee, comprese Torino e Milano, si sono ripensate. Una storia triste, lunga ben oltre un secolo quella del paradiso deturpato tra Nisida e Pozzuoli, paradigmatica di una città dinamica come nessuna nel suo spirito culturale ma pressoché immobile nel suo corpo urbano. Il paradosso è che i napoletani, al centro di uno dei golfi più belli del mondo, non possono beneficiare di una lingua di sabbia affacciata su un mare balneabile, e non possono neanche offrirla ai turisti, che spesso se l’aspettano. Tutti hanno voglia di mare a Napoli, e vi arrivano come possono: sulla scogliera di via Caracciolo, sulle piccole spiaggette della Rotonda Diaz, di Mergellina e della meravigliosa Posillipo, le cui acque cristalline sono di difficile accesso e bagnano una costa magnifica ma pur sempre irregolare e tufacea. L’offerta pubblica di lidi è sostanzialmente inesistente e per un napoletano è persino impossibile pensare che siano esistite delle importanti spiagge cittadine. Eppure c’erano, ed erano anche di gran richiamo per i viaggiatori di un tempo andato. Qualcuno le rimosse, le cancellò, stabilendo che il mare, nella città delle sirene e del leggendario castello sull’acqua, fosse da guardare ma non da toccare, che avesse una semplice funzione estetico-contemplativa. Un delitto di Stato compiuto in un ventennio, inaugurato al tempo del colera del 1884, quando la classe politica del Regno d’Italia nascose dietro la “Legge per il risanamento della città” una manomissione dell’aspetto costiero, operata in nome della speculazione edilizia. Per poter operare, fu criminalizzato il mare cittadino e fu costituita una società di capitali statali che, secondo le reali necessità, avrebbe dovuto modernizzare Napoli ma che invece si limitò solo all’improcrastinabile soluzione dei problemi sanitari, giustificazione per un intervento invasivo sulla riviera di Chiaia, che così si chiamava perché era una lunga spiaggia, una “plaja” per dirla alla spagnola. Era stata immortalata nelle innumerevoli guaches a beneficio dei viaggiatori del Grand Tour, che da lì, insieme ai napoletani, osservavano le mitiche eruzioni del Vesuvio. Al suo posto, tra forti polemiche, fu realizzata un’elegante strada lungomare senza spiaggia, su forte pressione di società immobiliari e finanziarie estranee al territorio: le torinesi Società Generale di Credito Mobiliare Italiano, Banca Subalpina, Società Fratelli Marsiglia e Banca Tiberina, e la romana Banca Generale e Immobiliare dei Lavori di Utilità Pubblica ed Agricola. Per l’assegnazione
degli appalti, il sindaco Nicola Amore fu accusato di aver di aver favorito i capitali dei gruppi immobiliari-finanziari esterni nell’acquisto di suoli edificabili, compresa la società svizzera Geisser, che aveva scalato l’alta finanza grazie ai solidi legami stretti con Cavour e che controllava le azioni della Banca Tiberina di Torino, istituto proprietario di alcuni suoli a Chiaia, oltre che al Vomero. Bisognava ad ogni costo sfruttare tutti i suoli, e la cancellazione della spiaggia di Chiaia non bastava. Fu rifatto anche il tratto lungomare tra la Villa Comunale, allora Villa Reale, e il vecchio lungomare di Santa Lucia, alzando eleganti edifici residenziali e alberghieri davanti al panoramico Chiatamone. Le spese dell’opera se le accollò il finanziere belga Ermanno Du Mesnil, rappresentato a Napoli dal fratello Oscar, in cambio di un consistente sussidio e di suoli edificabili là dove furono costruiti i bei palazzi dell’attuale viale Gramsci. Per far spazio a un nuovo rione, si pensò addirittura di demolire il Castel dell’Ovo, cavalcando il giudizio già espresso dai tecnici di una Sezione di Architettura degli Scienziati, Letterati ed Artisti di Napoli operante in consiglio comunale. Lo avevano definito “brutto e ormai inutile, un rudere che non ha più ragione di essere in piedi”, e tanto bastava per cavalcare la “sensibilità” in materia di tutela dei luoghi. Fortunatamente, la minaccia non ebbe seguito, e i nuovi palazzi sorsero dirimpetto, su una colmata che annientò anche la spiaggia di Santa Lucia e che fece avanzare il lungomare, fino a quel momento sull’attuale omonima via. La naturale morfologia costiera della città che aveva affascinato l’Europa fu completamente cancellata, senza alcuna valutazione di impatto ambientale. Risolto il problema igienico con un nuovo acquedotto, quello del Serino, restarono irrisolti i cronici problemi della più popolosa città d’Italia, alcuni antichi ma molti creati dalle politiche settentrionaliste dei governi del Regno d’Italia. La città si affacciò al Novecento inginocchiata dalla politica fiscale, fondiaria e creditizia del nuovo Stato italiano, tagliata fuori dalle principali vie di traffico e ridotta a città di consumo. La triste situazione fu analizzata e denunciata da Francesco Saverio Nitti, il quale stimolò il dibattito in Parlamento con lo studio statistico La città di Napoli del 1902, arricchito ulteriormente e ripubblicato nel 1903 con il titolo Napoli e la questione meridionale. Dell’economista melfitano si avvalse il presidente del Consiglio, il cuneese Giovanni Giolitti, per studiare provvedimenti speciali per il capoluogo campano. Ne venne fuori una Legge speciale per il Risorgimento economico della città di Napoli, approvata l’8 luglio del 1904, che però non riuscì a fornire i risultati sperati. Il simbolo del fallimento fu la realizzazione delle acciaierie Ilva Italsider nel paradiso termale di Bagnoli, sulle rive di una delle baie più belle al mondo, nel giardino flegreo degli antichi romani sul golfo di Pozzuoli. Destinato dalla natura e dalla storia all’impresa turistica, vide invece la prima colata d’acciaio nel 1909. Già privata della spiaggia di Chiaja, Napoli perse così anche il litorale dell’area flegrea. Le acciaierie inquinarono la costa fino al 1992, ma non terminarono di deturpare il paesaggio di una grande risorsa mandata al diavolo. La loro chiusura fornì una grande opportunità che però le amministrazioni comunali non avrebbero saputo cogliere in seguito. Ben cinque lustri sono trascorsi da allora, e la città ancora si mostra incapace di stimolare un dibattito per restituirsi una spiaggia e il suo mare. Napoli ha bisogno di un progetto minimale di spazio pubblico litoraneo da considerare per la visione della città del futuro. Il lavoro di rigenerazione deve passare assolutamente anche per l’idea che bagnarsi a Napoli debba far parte della vita sociale. Nel frattempo ha deciso di intervenire il Governo, nel tentativo di riparare i danni del passato. Un esempio ci sarebbe, ed è Barcellona, con un lungomare a Barceloneta di quelli veri, con un’ampia spiaggia, una passeggiata con aree verdi alle spalle, zone dedicate agli amanti dello skate, piste ciclabili, campi per praticare sport all’aperto, ristoranti panoramici, alberghi e locali che animano le notti d’estate. Prima delle Olimpiadi del 1992 tutto questo era solo il sogno di un’amministrazione con uno sguardo rivolto al futuro. Barceloneta e la zona costiera della città erano solo vecchi capannoni ereditati dalla rivoluzione industriale, binari della ferrovia abbondonati, bar malfamati. Da allora, Barceloneta è una delle aree che generano maggior denaro per le casse del comune. Certo, le Olimpiadi hanno portato soldi e investimenti nel capoluogo catalano, ma sono stati spesi, e spesi bene. Lo stesso non può dirsi per quanto mandato a Napoli per Bagnoli, circa settantasei milioni di euro dal 1992 a oggi. Tanto denaro per nulla.
Bagnoli, il mare negato
83 anni di inquinamento