Il 17 marzo la nazione italiana compirà 157 anni, anche se in quella data del 1861 mancavano lo Stato della Chiesa con tutta Roma, il Veneto con Venezia, la Venezia Giulia, il Friuli e il Trentino Alto Adige. Mica poco per poterla definire “Giornata dell’Unità nazionale”, come recita la legge del 2012. Era semplicemente la data in cui Vittorio Emanuele II di Savoia si autoproclamò “Roi de l’Italie”, e così fu scritto nell’atto che promulgava la legge n. 4671 del Regno di Sardegna, non d’Italia, redatto in rigoroso francese: “Roi Victor Emmanuel prend pour lui et ses successeur le titre de Roi d’Italie”. Il numerale che accompagnava il nome del sovrano non era stato modificato: Vittorio Emanuele II, non I come avrebbe voluto larga parte dell’opinione pubblica patriottica. Era la conferma implicita del fatto che il nuovo Stato fosse allargamento territoriale del Regno di Sardegna e delle sue istituzioni. La “Giornata dell’Unità nazionale”, dal giorno della sua ufficializzazione voluta da Giorgio Napolitano, passa pressoché inosservata. Nessuno ricorda e nessuno sa cosa ricorra. È l’esatta dimensione dello spirito patriottico italiano, generato da un’operazione d’ingegneria sociale della Massoneria ottocentesca operata dai primi ministri della pubblica istruzione. A Francesco De Sanctis, Michele Coppino e Guido Baccelli fu affidata la prima cura dell’Italia tutt’una, nell’obiettivo di forgiare una nuova coscienza collettiva della Nazione, di fare gli italiani dopo aver fatto l’Italia, cioè costruirli in laboratorio, sradicando il grande patrimonio delle diverse identità territoriali e i residui superstiziosi della precedente egemonia clericale, e diffondendo una diversa fede laica, quella nell’Unità, in quanto ragione di grandezza del Paese che avrebbe dovuto rendere tutti orgogliosi.
Tra gli ideali che avevano ispirato il Risorgimento e l’Unità, quello laicista fu sicuramente uno dei più importanti. Rifacendosi alle più avanzate nazioni protestanti europee, gli artefici dell’annessione al Regno d’Italia piemontese di Napoli, la città più grande d’Italia dell’epoca, e poi di Roma capitale designata, dovevano rendersi protagonisti della diffusione di un’ideologia svincolata dalla fortissima tradizione cattolica d’Italia di cui le due città erano portatrici, e contribuire ad allentare lo stretto rapporto con la Chiesa che aveva sempre caratterizzato la vita degli stati italiani. A preservare l’autorità del Papa nei primi anni del Regno d’Italia ci pensò un francese, non un italiano. Napoleone III, imperatore di quella Francia “figlia primogenita della Chiesa” piena di cattolici e di un consenso da preservare, piazzò le sue truppe in territorio romano, e fu un bel problema per Garibaldi ma anche per la pletora sabauda. Vi fu bisogno di tutta la scaltrezza piemontese per risolvere la rogna, anche perché la posizione geografica di Torino, prima capitale d’Italia, troppo vicina al confine nemico, la condannava a non esserlo per troppo tempo. Le trattative diplomatiche portarono alla “Convenzione di settembre” del 1864, con cui il Re di Francia s’impegnò a ritirare gradualmente i suoi uomini in cambio dell’impegno a non invadere il territorio pontificio. A garanzia degli impegni presi dai piemontesi, il sovrano francese impose il trasferimento della capitale in un’altra città, cosa che avrebbe dovuto provare la definitiva rinuncia alle seducenti mitologie di Roma capitale dell’Italia laica. In realtà, gli italiani piemontesizzati, guidati dalla Destra storica, miravano semplicemente a far sloggiare i garanti di Pio IX, per poi rompere i patti a modo loro. La capitale avrebbe dovuto trasferirsi solo provvisoriamente altrove, e non sarebbe più tornata a Torino, con buona pace del Re e dei torinesi in rivolta.
Fu proposta Firenze, sostenuta da un Consiglio militare di cinque generali perché non esposta all’aggressione marittima, ma poco esaltata dalla possibilità. Proposta anche Napoli, preferita dal Consiglio dei ministri per diversi motivi: era città di cultura e immagine degna delle grandi capitali europee; lontana dal confine e meno esposta a un eventuale intervento austriaco richiesto dal Papa; ex capitale, già pronta a ricevere i dicasteri e la corte senza necessità di grandi spese. E poi si trattava della maggior metropoli italiana, la terza più popolata del Vecchio Continente. Al sorgere della storia unitaria, la città partenopea superava abbondantemente i quattrocentomila abitanti, ovvero le popolazioni di Milano e Torino messe insieme, più mezza Firenze. Tale scelta, secondo i sostenitori dell’ipotesi, avrebbe potuto contribuire a sradicare il brigantaggio meridionale che, causa il tradimento delle promesse di redistribuzione delle terre, stava mettendo fortemente a rischio la compattezza geografica. Alla fine del ballottaggio prevalse la più piccola città toscana, ma la volontà fu più che altro sovrana. Vittorio Emanuele II, percependo la non ancora sopita rilevanza di Napoli, evitò che la città conquistata tornasse ad essere capitale, scongiurando difficoltà future. Il Re, invitato ad esprimere il suo influente parere ai ministri, aveva indirizzato la scelta così: “Andando a Firenze, dopo due anni, dopo cinque, anche dopo sei se volete, potremo dire addio ai fiorentini e andare a Roma; ma da Napoli non si esce; se vi andiamo, saremo costretti a rimanerci. Volete voi Napoli? Se ciò volete, badate bene, prima di prendere la risoluzione di andare a stabilire la capitale a Napoli, bisogna prendere quella di rinunziare definitivamente a Roma”.
Fu fatta capitale una Firenze con poco più di centomila abitanti invasa dalle istituzioni, dal Parlamento, dal Re, dalla corte e di tutto ciò che necessitava una capitale. Trentamila burocrati piemontesi a sconvolgerne le abitudini, le tradizioni e l’urbanistica. Ma gli uomini del “Re Galantuomo”, che gli accordi li prendevano per romperli, attesero che Roma fosse defrancesizzata e, dopo cinque anni e mezzo, invasero lo Stato Pontificio. Pio IX abbandonò il Quirinale e si ritirò in Vaticano, dichiarandosi “prigioniero d’Italia” fino alla morte, rifiutando di riconoscere la Legge delle Guarantiglie, con cui il Regno d’Italia dei Savoia con nuova capitale Roma intese regolare i rapporti con la Santa Sede. Il Pontefice vietò ai cattolici di partecipare all’attività politica italiana e scomunicò tutti coloro che avevano partecipato al processo risorgimentale, a partire dai Savoia, compreso Vittorio Emanuele II, e lo fece per ben tre volte, salvo poi ritirare il provvedimento nel 1878, in punto di morte del baffuto re piemontese, inviando un sacerdote al suo capezzale per impartirgli l’assoluzione, poiché il primo sovrano dello stato nazionale italiano, comunque uno stato cattolico, non poteva e non doveva morire senza sacramenti. Il Vaticano e l’Italia restarono separati in casa fino all’avvento del Fascismo, nel primo Novecento, mentre a rappresentare il rafforzato potere laico contrapposto alle forze conservatrici e clericali ci pensò proprio la Massoneria. Il Potere temporale fu in qualche modo riabilitato dai negoziati tra Benito Mussolini e Pio XI, culminati nei Patti Lateranensi, con cui fu siglato un reciproco riconoscimento tra Regno d’Italia e Stato Vaticano. Fallita sul nascere la creazione di un Paese condiviso e giusto, naufragava anche lo scopo fondante di sradicare la sua appartenenza religiosa.