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Vita da rider, i nuovi schiavi

Dopo la brutale aggressione a Gianni Lanciato la categoria dei ciclofattorini chiede maggiori tutele

A volte Facebook può essere più efficace di una telefonata al 113. Se non avessimo visto il video con le raccapriccianti immagini di un branco di sei giovani che si accanivano contro un “rider” per rapinargli il motorino infatti anche questa violenza sarebbe rimasta ignorata, dalla cittadinanza, come i tanti episodi di criminalità diffusa ai quali siamo tutti quotidianamente esposti e che non sempre vengono denunciati.

Vigliaccamente in sei contro uno (avevano una pistola ed un coltello). In giro in moto, nonostante il lockdown, senza che nessuno li fermasse. L’aggressione all’una della notte – tra Capodanno e il 2 gennaio – in calata Capodichino (dove non ci sono telecamere); con un eccesso di violenza – del tutto gratuita, cioè smisurata rispetto al fine predatorio – generalmente attribuibile agli effetti dell’alcool o della droga. Calci e pugni a ripetizione contro Gianni Lanciato, che tentava di difendere il proprio strumento di lavoro, finché a un certo punto non l’hanno trascinato a terra ed uno dei delinquenti lo ha investito con lo scooter, fiaccando l’ultima resistenza. È stato un miracolo che non sia finita in tragedia o con lesioni gravi per la vittima. Ora gli aggressori (tra cui 4 minorenni), individuati prontamente dalla polizia anche grazie al video girato da un privato, sono tutti in carcere. Non si sa se si trattasse di un “branco” costituito o di una aggregazione casuale. E c’è già chi invoca seminari sulla devianza. Servono buoni esempi e opportunità di lavoro, ha ricordato il cardinale Sepe nel saluto ai giornalisti prima di passare il testimone a monsignor Battaglia. Ma il malessere e il senso di ribellione provati alla vista di tanta brutalità, hanno distolto l’attenzione da un altro aspetto scottante del fatto di cronaca. Un uomo di 50 anni costretto a un lavoro precario e senza diritti, per portare avanti la famiglia. Non un soggetto senz’arte né parte, ma con una esperienza di 25 anni quale dipendente Auchan come macellaio specializzato di terzo livello; fino al 2015, quando finì nella tagliola degli esuberi.
Un episodio, questo dell’aggressione al rider (ne sono stati rapinati 70 in due mesi), che ha fatto emergere la sofferenza dei tanti che fanno consegne a domicilio. E ora la categoria chiede maggiori tutele: “Lavoriamo e paghiamo le tasse ma è come se non esistessimo”.
In bici e moto attraversano a razzo la metropoli. Attratti da un lavoro autonomo e senza limiti di orario, con cui si guadagna poco ma più si corre (sotto il controllo di uno scanner satellitare) e più si guadagna. Con una idea di libertà che è solo apparente: il rapporto di lavoro non dipendente infatti libera il “padrone” da ogni responsabilità ma vincola i lavoratori a ritmi da schiavi, rubando loro il tempo della vita e dunque per la famiglia, gli affetti, ogni gioia. Una condizione rappresentata dal film di Ken Loach “Sorry, we missed you”. Scusa, ma ci sei mancato. È quel che rimproverano i figli al protagonista quando ogni equilibrio è saltato.

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