di Cinzia Rosaria Baldi *
Il terrore corre su internet contemporaneamente all’invito a vaccinarsi. Da giovedì la notizia che il vaccino AstraZeneca possa causare danni alla salute e, forse, anche la morte rimbalza in rete dall’Europa all’Italia. Le Regioni italiane, dalla Lombardia alla Campania, dalla Sicilia al Veneto e man mano tutte le altre hanno provveduto a ritirare le dosi di un lotto sospetto di AstraZeneca dall’utilizzo.
La stessa Danimarca ha sospeso in via precauzionale la somministrazione del vaccino AstraZeneca, dopo la segnalazione di alcuni gravi episodi circolatori. Vero o falso: ancora non si sa se le patologie riscontrate, malesseri, morte siano conseguenza del vaccino e nemmeno cosa stia accadendo veramente, se è tutto il vaccino ad essere dannoso o un lotto solo di esso. La notizia scorre parallela e si scontra con l’informazione del risultato dell’autopsia su Annamaria Mantile, l’insegnante 62enne che si credeva morta per lo stesso vaccino. L’esito dell’autopsia dimostra che non c’è correlazione tra la somministrazione del vaccino AstraZeneca e la morte di Annamaria Mantile, causata, invece, da un infarto intestinale.
La paura è uno dei principali strumenti di difesa imprescindibile dell’individuo, stimolo importante che permette di attivare reazioni utili alla difesa personale dai pericoli dell’ambiente. La paura è “generata” da un’area precisa del cervello: l’amigdala. È la parte più antica del nostro encefalo (ci accomuna addirittura ai rettili) e possiamo considerarla come la nostra “memoria emotiva”; è in questa zona che viene memorizzato il “dolore” e con esso la possibilità di poterlo superare grazie all’esperienza. Quando abbiamo paura di qualcosa, l’amigdala invia un segnale di allarme al resto del cervello, che a sua volta comunica al corpo l’esigenza di produrre quegli ormoni necessari ad attivare i centri del movimento (per avviare le reazioni di difesa, fuga o combattimento), che attivano il sistema cardiovascolare. Alcune ricerche scientifiche hanno dimostrato che guardare notiziari che diffondo informazioni di paura e disperazione, dopo attentati terroristici o disastri naturali, aumenta in modo costante il rischio di sviluppare Depressione o Disturbo Post traumatico da stress. Le cronache a cui ci espongono i media hanno un impatto enorme sul nostro stato di benessere. La comunicazione dovrebbe porsi il problema delle conseguenze che ne derivano a chi la riceve. La notizia deve essere data, anzi è un diritto di tutti riceverla ma nel modo giusto. Ad esempio ci sono diversi modi di raccontare un evento tragico, soffermandosi su alcuni dettagli invece che su altri; ovvero cambiare il modo di raccontare i fatti e creare una narrazione che ponga al centro la rigenerazione.
Siamo di fronte ad un evento epocale, che mette a repentaglio il futuro dei giovani e che fa temere la morte agli anziani, tutti attendono una speranza e chiedono di essere informati in modo corretto e veritiero, ma chiedono anche una narrazione incentrata sulla narrazione dei processi di recupero ad esempio: come si ricostruiscono le comunità dopo una tragedia, o un disastro, o un’emergenza sanitaria? Come faranno le persone, quando tutto sarà finito, a ritornare ad impegnarsi? Oppure come nasce un significato dopo un trauma cosi forte?
Quando le persone ascoltano approfondiscono storie video, narrazioni su questi elementi e si percepiscono meno disperate e più speranzose, meno impaurite e più coraggiose, maggiormente disposte a mettere in atto cambiamenti positivi anche nella loro vita.
La resilienza, cioè la capacità di una persona di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà, se raccontata attraverso una storia ha il potere di diventare contagiosa. A tal proposito credo sia necessario, anche nel privato, porre l’attenzione alle storie che raccontiamo alle persone, che ci circondano, ciò che scegliamo di condividere può contaminare e generare una cultura della resilienza. È giusto raccontare le sofferenze, le fatiche, i problemi che si possono incontrare nella vita di tutti i giorni, ma non dimentichiamoci mai di affiancare al racconto del disagio anche le parti della storia di coraggio o compassione: la resilienza che vive in noi e nella nostra comunità.
*psicologa età evolutiva