Partiamo dalla notizia: il 14 marzo scorso Bergamo è al collasso: arrivano malati di Covid da tutte le parti, fuori dell’ospedale le bare sono in fila, aspettano che i camion dell’Esercito possano trasportale all’inceneritore. Non ci sono più posti in rianimazione. Il ministro della Sanità dispone il trasferimento dei nuovi arrivati in altre strutture del Paese. Il primo ad utilizzare questa decisione è Ettore Consonni, magazziniere in pensione. Lo imbarcano in fretta e furia su un aereo militare e lo trasportano all’Ospedale Cervello di Palermo, dove per fortuna ci sono ancora posti liberi in terapia intensiva. Le sue condizioni appaiono sin da subito gravissime. Sedato e in coma farmacologico non si accorge di nulla. Lotta disperatamente, il suo organismo reagisce, le cure amorevoli di medici e infermieri siciliani riescono a strapparlo alla morte. Superata la fase acuta, dopo una decina di giorni si risveglia. E tre giorni fa è stato dimesso. “Mi sono addormentato a Bergamo, la mia città, e mi sono svegliato a Palermo. Ma io mica ci credevo…”, ha dichiarato in un’intervista.
“Qui mi hanno resuscitato, grazie: ci sono infermieri e medici speciali”, ha continuato ringraziando tutti i sanitari che gli sono stati accanto e che, una volta ripresosi, gli hanno permesso di mantenere i contatti, tramite video chiamata, con la sua famiglia. Ettore adesso non vede l’ora di tornare a casa, ma nel frattempo dichiara: “La Sicilia me la tatuerò sul cuore”.
Ettore è un cittadino bergamasco come Vittorio Feltri, ma lui ha capito, e lo ha dimostrato con le sue dichiarazioni, che non esistono due Italie e soprattutto che i meridionali non sono “inferiori”: lo hanno curato con la stessa solerzia, con la stessa professionalità e con lo stesso amore con i quali lo avrebbero curato nella sua città. Ed analoga esperienza l’hanno vissuta altri due cittadini, uno di Bergamo e l’altro di Cremona, curati e salvati a Catanzaro ed entrambi ufficialmente grati e riconoscenti.
Senza contare che un medico calabrese, laureato all’Università Magna Grecia di Catanzaro ha curato e salvato a Londra il primo ministro Boris Johnson e che i due gestori dell’emergenza Coronavirus in Italia sono Domenico Arcuri e Vittorio Colao, guarda caso entrambi meridionali e più specificamente calabresi.
In questi giorni malinconici di prigionia casalinga stiamo assistendo ad un triste spettacolo di contrapposizione Nord-Sud che si sta celebrando soprattutto sui mezzi di informazione.
Portabandiera di queste dispute è diventato Vittorio Feltri, che nel disperato tentativo di rintuzzare il bombardamento, a volte, riconosciamolo, anche strumentale, sulla sua Lombardia e sulla sua Bergamo, non trova di meglio che attaccare con vaniloqui deliranti Napoli, i napoletani e i meridionali in genere.
Ne ha dette di tutti i colori e in alcuni casi, nel pieno della sua alterazione, ha talmente travalicato i limiti della ragione, tracimando nel razzismo puro, da sollecitare l’attenzione del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Campania Ottavio Lucarelli, che lo ha segnalato al suo omonimo lombardo affinché trasmettesse gli atti al Consiglio di disciplina territoriale per l’apertura di un procedimento disciplinare.
Cosa che il presidente lombardo ha fatto immediatamente. Ma non sarà certo il timore di una sanzione disciplinare che potrà bloccare Feltri dal continuare ad esternare le sue farneticazioni razziste di lombrosiana memoria.
Feltri, nel suo delirio, è giunto al punto di ipotizzare una secessione della Lombardia, quando la tragedia Coronavirus sarà finita. Facessero. Possiamo tranquillamente ritornare alle pagliacciate di Bossi, con le ampolle alla foce dal Po.
Il problema è che per noi questi attacchi e queste minacce rispolverano l’amaro ricordo di antiche angherie, che negli anni abbiamo sopito nel nome dell’Unità. Nessuno si sogna, nemmeno lontanamente, di ripercorrere nostalgici itinerari di neo-borbonismo. Ma Feltri e compagni, se non lo sanno, dovrebbero quanto meno imparare a sapere che negli ultimi anni la ricerca storica ha chiarito alcuni concetti che erano sfuggiti, dolosamente, alle ricostruzioni che per circa centocinquanta anni ci hanno propinato sul Risorgimento e sul Regno delle due Sicilie. Che non incarnava affatto un regime dispotico e tiranno, che non era arretrato come ce lo hanno dipinto, ma che era invece un regno splendente, ricchissimo, con un patrimonio artistico e monumentale che ancor oggi rappresenta il fiore all’occhiello per i turisti che in massa hanno riscoperto Napoli. Queste affermazioni sono state recentemente corroborate da alcuni studiosi non certo accusabili di partigianeria. Le analisi di Malanima e Daniele prima e quelle ancor più recenti di Fenoaltea e Ciccarelli, pubblicate addirittura sulla Collana della Banca d’Italia, lo hanno dimostrato senza tema di smentite.
Napoli e la Sicilia erano autonomi e indipendenti. Arrivò quel filibustiere di Garibaldi, garantito dal tacito consenso del mellifluo Cavour, e con un vero e proprio atto di pirateria, senza una dichiarazione di guerra, che già allora il diritto internazionale prevedeva, conquistò quel regno per regalarlo a Vittorio Emanuele II, cugino del re defenestrato, Francesco II. E così i piemontesi, per raddrizzare le loro casse rese esangui dalle due guerre di indipendenza che avevano perso (e che non avevano affatto vinto, come ci hanno fatto studiare da ragazzi sui libri di storia), trasferirono materialmente le ricchezze trovate a Torino, compresi i beni privati della dinastia Borbone, chiusero le fabbriche che rappresentavano l’orgoglio del Sud (Mongiana, Pietrarsa, Castellammare, San Leucio), per trasferirle al Nord e avviarono una durissima repressione contro i meridionali che non volevano rassegnarsi a quella rapina. Li chiamarono persino briganti. E con quel sanguinario generale Cialdini diedero luogo ad una carneficina, fatta di veri e propri crimini di guerra, di deportazioni, di stupri e che causò decine di migliaia di morti, compresi gli abitanti di Pontelandolfo e Casalduni che furono letteralmente rase al suolo. Bene ha fatto De Magistris (l’unica cosa buona del suo mandato decennale) a togliergli la cittadinanza onoraria.
Cominciò di lì la “questione meridionale”, il Sud fu immiserito e abbandonato, milioni di meridionali furono costretti, per ben due volte, prima e dopo il fascismo, ad abbandonare le loro terre e ad emigrare nella lontana America per conquistarsi almeno il pane quotidiano. Su tutto questo hanno scritto migliaia di pagine, tutte documentatissime, a dispetto delle diffidenze di alcuni storici di professione, che continuano a mettere la testa sotto la sabbia, non solo i meridionali (senza scomodare Gramsci e Nitti) Aprile, Di Fiore e Ciano, ma anche i settentrionalissimi Del Boca, Giordano Guerri, Oliva e Pellicciari.
Ed ora “tomo tomo” se ne viene Feltri a parlare di “razza inferiore” e di secessione. Semmai dovremmo essere noi a rivendicare quell’autonomia che ci è stata sottratta, ma non lo facciamo perché in tutti questi anni abbiamo imparato che l’Italia è davvero una nazione, parliamo tutti la stessa lingua mutuata dal latino di Roma che già ci teneva insieme e che non avrebbe senso storico, nel 2020, sgretolare un’unità che è ormai nell’animo di ciascuno di noi un valore acquisito. Siamo tutti, ormai, “nativi unitari”. Ma non vorremmo passare dal “cornuti” al “mazziati”. Questo proprio no.