Ci siamo! Il dibattito sulle autonomie entra nuovamente nel vivo e piomberà sul tavolo del Consiglio dei Ministri la prossima settimana. Allo stato attuale non trapela un testo definitivo che possa smentire il piano originario del Ministro Stefani, un testo ufficioso che aveva sollevato molte preoccupazioni. Dunque, negli ultimi giorni le autonomie tornano alla ribalta e “Il Napoli” intende offrire ai suoi lettori un’attenta disamina della questione, proponendo un dossier dettagliato ma fondamentale per capire lo stato dell’arte.
Autonomie: cosa sta accadendo
L’accelerazione del processo di autonomia differenziata rappresenta una forte novità nel panorama nazionale, tant’è che tutte le iniziative regionali passate (Toscana, Veneto, Lombardia, Piemonte) finalizzate all’ottenimento di una maggiore autonomia non sono mai andate a buon fine stante il fermo parere negativo di tutti i precedenti Governi. Negli ultimi mesi il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna si sono attivate al fine di ottenere maggiori risorse e poteri, come previsto dall’articolo 116 della Costituzione. La Lombardia e l’Emilia richiedono l’autonomia su 15 materie, mentre il Veneto ha chiesto di avere potere esclusivo su materie quali:
strade, autostrade, porti e aeroporti (inclusa una zona franca), l’offerta formativa scolastica, la programmazione dei flussi migratori, le Soprintendenze, le concessioni per l’idroelettrico e lo stoccaggio del gas, le autorizzazioni per elettrodotti, gasdotti e oleodotti, la protezione civile, i contratti con il personale sanitario, i fondi per il sostegno alle imprese, le valutazioni sugli impianti con impatto sul territorio,i contributi alle scuole private, i fondi per l’edilizia scolastica, il diritto allo studio e la formazione universitari, la cassa integrazione guadagni, la previdenza complementare, i Vigili del Fuoco, la partecipazione alle decisioni relative agli atti normativi comunitari, la promozione all’estero, l’Istat, il Corecom al posto dell’Agcom, le professioni non ordinistiche.
pechè vogliono le autonomie? La truffa del residuo fiscale
Le motivazioni poste alla base della maggiore richiesta di trasferimenti vertono sul fatto che suddette Regioni ritengono di detenere un residuo fiscale a loro favore. Il residuo fiscale è la “differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori”. Tuttavia, se si considera il residuo fiscale come un qualcosa di strategicamente rilevante, ciò significa legittimare il fatto che chi nasca in un certo territorio sia più meritevole di diritti rispetto ad altri. In uno Stato unitario non ci sono residui fiscali dal momento che il rapporto fiscale si svolge tra il cittadino e lo Stato e non con lo specifico territorio di residenza dei soggetti che pagano le imposte. “Vuoi che la Regione mantenga almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi nel territorio regionale?”: questa domanda doveva essere oggetto del referendum sull’autonomia del Veneto. Tuttavia, tale quesito non fu più posto ai cittadini in virtù della sentenza 118/2015 della Corte Costituzionale che, riferendosi al suddetto residuo che dovrebbero permanere sul territorio, così si espresse: “i quesiti in esame profilano alterazioni stabili e profonde degli equilibri della finanza pubblica, incidendo così sui legami di solidarietà tra la popolazione regionale e il resto della Repubblica (…) investono in pieno (…) alcuni elementi strutturali del sistema nazionale di programmazione finanziaria, indispensabili a garantire la coesione e la solidarietà all’interno della Repubblica, nonché l’unità giuridica ed economica di quest’ultima”. Perchè allora si parla ancora di residuo fiscale?
O si fissano i Lep o l’Italia muore
Dunque, al fine di una efficace attuazione dell’autonomia differenziata e di scongiurarei ricorsi (probabili) alla Corte costituzionale è fondamentale che tutti gli equilibri previsti dalla Costituzione siano rispettati e in particolare che siano determinati i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti di diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ciò a garanzia dei cittadini italiani ovunque residenti, compresi quelli della Regione Veneto. Infatti, attuare solo la maggiore autonomia renderebbe il sistema sbilanciato, in assenza della previa definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (lep) introdotti dall’articolo 117 della Costituzione in occasione della riforma del Titolo V ma mai entrati in vigore dal 2001 (palesandosi un vuoto normativo denunciato più volte dalla Corte Costituzionale).
I lep individuano i diritti minimi da garantire ex lege in tutte le Regioni d’Italia, come ad esempio i diritti connessi all’istruzione, all’assistenza sociale, ai trasporti locali (etc.). Di fatto, se spetta alle Regioni, alle Province e ai Comuni erogare le prestazioni, tocca allo Stato il compito di definire i lep preoccupandosi che in tutte le Regioni si raggiungano i livelli minimi così garantiti, salvo dover intervenire con finanziamenti perequativi. Facendo un esempio, se la Regione Veneto avrà – in virtù della conseguita autonomia – diritto ad un miliardo in più rispetto al passato per garantire il diritto allo studio nel proprio territorio, questo capitolo di spesa sarà un delta negativo per le casse statali con – a cascata – una minore possibilità di trasferimenti relativi nelle restanti Regioni d’Italia. A tal proposito, nella “Rivista economica del Mezzogiorno” il Professor Adriano Giannola (storico Presidente della Svimez, già Presidente Emerito dell’Istituto Banco di Napoli e membro dell’Unesco) fa la seguente analisi: “le Regioni che attueranno il federalismo differenziato vedranno incrementata nella situazione ex post la quota delle risorse erogata e gestita dalle loro Amministrazioni rispetto alle situazioni ex ante (+106 miliardi per la Lombardia, +41 miliardi per il Veneto e +43 miliardi per l’Emilia-Romagna), mentre si assisterà ad una diminuzione di pari importo delle risorse gestite direttamente dall’Amministrazione centrale”. Dunque, la definizione dei lep (che vorrebbe dire “rispettare quanto già fissato in sede costituzionale”) garantirebbe a tutti i cittadini italiani “almeno il soddisfacimento dei livelli essenziali delle prestazioni, dalla sanità all’istruzione”.
Lep e fondo perequativo, stallo totale
La riforma del titolo V della Costituzione ha previsto l’istituzione di un “fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Nel 2009 il Ministro Calderoli emanò i decreti attuativi e così il Parlamento approvò la legge 42/2009, il cui articolo 13 recitava che la dimensione dei fondi perequativi dovesse essere “pari alla differenza tra il totale dei fabbisogni standard per l’esercizio delle funzioni da loro svolte ed il totale dell’entrate standardizzate”.
Tuttavia tali decreti attuativi erano scevri dalla definizione dei Lep. A tal proposito il dottor Biliardo (membro della Ragioneria generale e del Ctfs) affermò nella Commissione federalismo: “i lep sono elemento imprescindibile per istituire i fondi perequativi che mancano. Il fondo perequativo per i municipi deve essere alimentato dalla fiscalità generale”. Tuttavia s’era solo definito il fondo di solidarietà comunale che “toglieva soldi agli enti con più risorse per darli a quelli con minore capacità fiscale creando un conflitto tra territori”, con il meccanismo del confronto tra fabbisogni standard e capacità fiscale. E non era finita qui: si ridusse il target perequativo rispetto alla copertura del 100% previsto dalla Costituzione. Infatti nel 2015 allorquando per la prima volta s’applicò il fondo di solidarietà comunale, l’Anci e il Governo (in occasione della conferenza Stato-Città ed autonomie locali) ridussero il target perequativo al 45,8%. Inizialmente si disse che solo nel 2015 vi sarebbe stato il 45,8%, in via transitoria. Ma questa percentuale fu utilizzata anche negli anni successivi. Come mai si ridusse il target perequativo? Per il dottor Biliardo “sempre per evitare di sottrarre eccessive risorse ad alcuni comuni a favore di altri”. Gli “alcuni” sono al nord, gli “altri” al sud. Nessun Sindaco ha mai fatto ricorso , nessuno ha mai chiesto il rimborso della mancata copertura del differenziale tra fabbisogni standard e capacità fiscale. Nonostante lo preveda la Costituzione. L’Onorevole Giorgetti (come spiega anche il giornalista Marco Esposito nel libro “Zero al Sud”) cercò di capire se, anzichè il 45,8%, si fosse usato il criterio del 100%. “I dati – disse – sarebbero scioccanti, magari ce li fanno avere in modo riservato o facciamo in una seduta segreta, come avviene in Commissione antimafia”. Lapecorella dunque si rivolse a Giorgetti: “I nostri collaboratori hanno fatto la simulazione al 100%, dunque la faremo avere al presidente e all’onorevole”. Giorgetti chiuse : “Ne faremo un uso discreto”. Dunque, se il fondo perequa al 45,8% e non al 100%, non perequa integralmente e dimezza il meccanismo previsto dalla Costituzione. S’aggiunga che la prima applicazione del federalismo fiscale era addirittura del 20%, e non del 45,8%. A tal proposito il Sottosegretario Barretta disse che tale misura “è stata penalizzante per i comuni del Nord, contrariamente a quanto si pensava”. E si sottolinea la parola “contrariamente a quanto si pensava”, avallata da un Sottosegretario che sapeva a cosa si andasse in contro. Il 10 settembre 2018, in occasione di un convegno, lo stesso Zaia così s’è espresso, dialogando col Ministro Stefani: “Possiamo evitare di ripetere fatta salva la solidarietà e sussidarietà nazionale, perchè rischiamo di rimanere col cappello in mano”. Ci ha ripensato? Non tanto. Il 10 febbraio 2019 Francesco Lo Dico de Il Mattino domanda a Zaia: “Applicando il metodo dei costi standard però lo scarto tra il Nord e il Sud rischia di allargarsi. Non è così? Risposta: “Dirò una cosa forte: non esiste una distribuzione equa del benessere…”. Non ci ha ripensato. La mancata determinazione dei Lep renderebbe impossibile per lo Stato esercitare ai sensi dell’art. 120 della Costituzione quei poteri sostitutivi nei confronti degli enti locali inadempienti, in particolare nel caso di mancato rispetto dei livelli essenziali indicati per l’istruzione, la tutela dell’ambiente, la sicurezza del lavoro.
La truffa del gettito fiscale
Occorre poi riflettere (stando ai disegni originari delle autonomie) sulle motivazioni per cui i trasferimenti dovessero essere ancorati ad indicatori di ricchezza – ovvero il gettito fiscale dei tributi – e non ad oggettivi fabbisogni dei territori: calibrando i trasferimenti sul reddito, la Regione più ricca (e che dunque contribuisce con un maggior gettito) sarebbe destinataria del diritto a maggiori trasferimenti e dunque a più consistenti diritti rispetto alle Regioni più povere: dall’istruzione alla protezione civile e comunque in tutte le materie oggetto della richiesta di autonomia, potendosi mettere in dubbio il diritto all’uguaglianza sancito dall’art.3 della Costituzione. A tal proposito, si sottolinea che la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna da sole producono circa il 40% del prodotto interno lordo italiano. Tuttavia il gettito fiscale non è un indicatore di bisogno ma semmai di agiatezza.
Imprenditori, Università, Scuole, Sanità e associazioni di categoria contrarie: “Così si penalizza il Mezzogiorno”
Ci sono dei settori in particolare (sanità ed istruzione) che cristallizerebbero una disparità di trattamento, già in essere, tra i cittadini italiani. Tra le competenze richieste più importanti figura senza dubbio l’istruzione. Ad esempio il Veneto vanterebbe “sia l’istituzione di ruoli per il personale delle scuole, sia la determinazione della sua consistenza organica, sia la stipulazione di contratti collettivi regionali”. Dunque il personale scolastico finirebbe per essere posto alle dipendenze della Regione, il che potrebbe comportare l’introduzione di condizioni alla mobilità interregionali o l’uso del criterio della residenza per accedere ai ruoli. Su binari simili si muoverebbe la Lombardia che intende regionalizzare anche il fondo di finanziamento ordinario delle università, con l’obiettivo di incrementarlo a discapito degli altri atenei italiani. E recentemente si è espressa anche una buona parte dei docenti della Federico II di Napoli, bocciando le autonomie. Come del resto hanno fatto anche più di 100 professori italiani, tra cui emeriti costituzionalisti. Stesso discorso per l’istruzione scolastica, che nei disegni conoscerà un incremento dei fondi a disposizione per le Regioni interessate, potendo così assumere nuovi insegnanti o aumentarne gli stipendi, incrementandosi enormemente la sperequazione nell’istruzione in assenza della definizione dei Lep. Il trasferimento regionale di servizi quali la sanità e la cultura – a forte contenuto redistributivo – potrebbe intaccare l’eguaglianza dei cittadini, come lascia intendere persino la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri secondo cui potrebbero “aumentare le disuguaglianze nella qualità delle prestazioni e negli accessi alle cure sanitarie”. Sul piede di guerra anche Confindustria e molteplici associazioni di categoria.
Senza i Lep regionalizziamo il debito pubblico o creiamo la secessione
La richiesta delle autonomie è legittima e sacorsanta, in quanto lo prevede la Costituzione. Tuttavia, sempre il nostro sacro testo, prevede che debbano essere prima definiti i Lep. Il problema è che sembra che non ci fossero le coperture. Inoltre andrebbe garantito un corretto conteggio dei fabbisogni standard, i quali vanno affidati a un organismo già esistente e funzionante, la Commissione tecnica fabbisogni standard, anche per evitare un moltiplicarsi di commissioni e di parametri una volta che il processo di autonomia differenziata sarà intrapreso da altre Regioni. Il conteggio dei fabbisogni, per funzionare, si deve basare sulle oggettive esigenze di un territorio e di una popolazione, senza introdurre elementi in contrasto con la Carta costituzionale come l’attribuzione di maggiori fabbisogni dove c’è maggiore gettito fiscale. In assenza di questi accorgimenti gli Onorevoli del Mezzogiorno potrebbero quantomeno chiedere di “regionalizzare” anche il debito pubblico italiano, facendolo “pagare” in proporzione alla ricchezza prodotta da ciascuna Regione e alla alla residenza territoriale dei possessori dei titoli di Stato. Oppure proponiamo di chiedere la secessione.