I riconoscimenti dell’Unesco a molte di noi, persone disincantate, non suscitano particolare orgoglio né vanto in virtù del conclamato sentore di sapere che questi Enti sono da sempre un orpello atto a glorificare o ad attestare la bellezza o la salvaguardia di un bene architettonico, un sito archeologico, un patrimonio immateriale a seconda del peso politico del comitato proponente o perché oggettivamente inserite tra le ottave meraviglie del mondo e quindi la relativa cassa di risonanza di un attestato dell’Unesco è sicuramente un valore aggiunto. E così la Regione Campania, dopo la pizza e la dieta mediterranea avvia l’iter per aggiungere un’ulteriore tacca proponendo al Comitato dell’Unesco, come patrimonio immateriale, il rito del caffè (con annessa toccante usanza del “caffè sospeso”) e dei caffè storici che un tempo pullulavano lungo le eleganti strade partenopee, ricchi di intellettuali e gente comune che degustavano la bevanda in opulente sale arredate con specchi, arazzi e velluti e che oggi purtroppo solo il Gambrinus, fin dal 1890, ne testimonia il glorioso passato e che tristemente oggi, per le stringenti ed assurde misure, atte a contrastare il Covid, ha chiuso. Speriamo non definitivamente. Il dossier presentato all’Unesco, redatto da un gruppo di esperti professori universitari, antropologi e giuristi, “racconta il valore identitario della cultura del caffè, per i napoletani, i campani, e tutti gli italiani.
Insieme agli elementi alimentari propri di questa tradizione, nel dossier sono stati evidenziati i profili legati allo sviluppo sostenibile, alla tutela dell’ambiente, alla preservazione degli ecosistemi che è strettamente connessa a questa nostra cultura”. Contestualmente all’attivarsi dell’iter dei legittimi organi preposti campani poteva però non insinuarsi il “sistema Italia” estendendola all’intero Stivale? Ancora una volta provano a scippare la nostra identità e i nostri simboli, contando sullo strapotere mediatico che da sempre l’editoria e la TV destina loro. Il caffè non è da meno: il “Consorzio di Tutela del Caffè espresso italiano tradizionale” è balzato alla cronaca. Il Presidente di tale Consorzio, nato nel 2014, è Giorgio Cabellini , imprenditore del caffè Dersut nel Triveto e vanta soci notevoli quali la torinese Lavazza, la triestina Illy vera e propria leader che vanta 7 milioni di tazzine di caffè al giorno, vendute in 140 Paesi nel mondo. Numeri che impressionano e che intuiamo poter essere in grado di indirizzare scelte del consumatore avallate da programmi inchiesta , spesso controversi, che tentano goffamente di distruggere, così come nel vano tentativo fatto con la pizza, il mito del caffè napoletano. In Italia il business ad esso legato vanta un fatturato di circa 4 miliardi con un consumo pro-capite stimato in circa 6 kg di caffè annui. In più dietro si sviluppa un enorme indotto lavorativo ed economico, che comprende anche il mercato delle attrezzature professionali (macchine, macinadosatori e prodotti correlati) di cui l’Italia è al primo posto (così come nella produzione di tazzine) nel mondo per la produzione, settore che vale circa 500 milioni di euro, di cui quasi 400 rivolti all’export e offre occupazione a oltre 1.200 addetti. Ancora più semplice comprendere perché quando si tratta di eccellenze, peculiarità, primati partenopei, la territorialità, così ignobilmente spiattellata in notizie di cronaca nera, diventa all’improvviso “italianità”.