C’è un primo maggio dal sapore tutto napoletano, che in pochi ricordano e che anche quest’anno, come ogni anno, rivivrà nella memoria delle associazioni meridionaliste. L’appuntamento per la consueta commemorazione e deposizione di una corona di fiori è per le 10.30 del primo maggio davanti ai cancelli del museo di Pietrarsa. Che oggi è solo un museo ma che un tempo era l’officina creata da Ferdinando II di Borbone, in cui si costruivano i pezzi per i treni con il materiale che era lavorato a Mongiana, in provincia di Catanzaro, altra “stella” delle industrie borboniche. Poi arrivarono i piemontesi e cominciarono a smantellare quelle fiorenti aziende.
E proprio a Pietrarsa, il 6 agosto 1863, si verificò la prima strage di lavoratori dell’Italia unita, con i bersaglieri piemontesi che ammazzarono 4 operai, Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso, Aniello Olivieri, e ne ferirono gravemente altri 20. Stavano manifestando per la riduzione dell’orario di lavoro e perché non ricevevano ormai da mesi lo stipendio. Come mai? L’Italia appena unita, sotto il Governo Rattazzi, nel 1860 si era trovata a dover decidere quale dei due stabilimenti dovesse diventare di Stato tra quello della Ansaldo di Genova e quello di Pietrarsa di San Giorgio a Cremano. Nominando un ingegnere di Nizza molto vicino ai Savoia, la scelta cadde sulla Ansaldo, che era al Nord e politicamente legata proprio ai Savoia. Tuttavia l’ingegnere francese dovette ammettere che anche lo stabilimento di Pietrarsa aveva la stessa forza e la stessa capacità produttiva di quello genovese. Ma ormai il dado era tratto. E così l’impianto napoletano, non essendo stato proclamato “di Stato”, divenne troppo costoso per le casse piemontesi e fu venduto all’imprenditore Jacobo Bozza. Costui, nel giro di pochi anni, dimezzò gli stipendi e tagliò progressivamente il personale, riducendo la produzione e chiudendo la Scuola d’Arte annessa alla fabbrica di Pietrarsa. Tutte cose che non accadevano sotto i Borbone, quando Ferdinando II pagava bene e con precisione. In un primo momento, lo scopo dell’impianto era quello di produrre materiale civile e bellico, ma successivamente il Re volle che il materiale prodotto in questa struttura fosse destinato alla costruzione e alla riparazione di locomotive, in modo che per la realizzazione dei suoi mezzi di trasporto su terra, la Nazione dovesse dipendere da nessuna potenza europea. Con la promessa di reintegrare tutti gli operai licenziati, Bozza mise fine alle proteste del personale. In realtà le sue intenzioni erano tutt’altro che positive: l’idea era quella di elargire soltanto metà dello stipendio con il solo fine di attenuare l’ira degli operai. Una specie di cassa integrazione dell’epoca. La tensione si fece sempre più alta: i 458 operai rimasti in servizio (prima dell’unità d’Italia erano 1.050) erano minacciati dal licenziamento e pagati con ritardo. Sui muri di Pietrarsa, comparvero i primi manifesti di protesta: “Muovetevi, artefici, che questa società di ingannatori e di ladri con la sua astuzia vi porterà alla miseria”. Il 6 agosto 1863 la situazione precipitò: alle due del pomeriggio, il capo contabile dell’azienda, tale Zimmermann, chiese al delegato di polizia di Portici l’invio di almeno sei agenti, per controllare gli operai in sciopero per ottenere lo stipendio. Al primo allarme, ne seguì un secondo, più drammatico: “Non bastano sei uomini, occorre un battaglione di truppa regolare”. Sul posto arrivarono i bersaglieri e i carabinieri ma intanto, al suono convenuto di una campana, tutti gli operai di ogni officina dello stabilimento, si riunirono nel gran piazzale dell’opificio. I soldati iniziarono ad aprire il fuoco senza preavviso e le fucilate misero in fuga gli operai. Quattro morti e venti feriti. Una storia che oggi è riportata fedelmente nell’Archivio di Stato di Napoli ma che, all’epoca dei fatti, fu nascosta perché grande era la vergogna per l’accaduto e così la vicenda fu “ridimensionata” dagli uomini di Stato e dai giornali. Si parlò di “fatali e irresistibili circostanze” avvenute per mano di “provocatori” e “mestatori borbonici”. Nel 1875, gli operai di Pietrarsa furono ridotti a 100, due anni dopo lo stabilimento fu affidato in fitto per 20 anni alla Società nazionale per le industrie meccaniche. Fino al 1885, vennero realizzate 110 locomotive, 845 carri, 280 vetture ferroviarie, caldaie e vapore e altro materiale ed eseguite 77 riparazioni. Nel 1905 lo Stato si riprese la gestione diretta di Pietrarsa. Per assenza di investimenti e abbandono, 70 anni dopo è stata decisa la sua chiusura definitiva.
Ancora oggi, a oltre 150 anni di distanza dall’eccidio di Pietrarsa, il sangue versato è ricordato da pochi. Quella decisione presa nel 1860 dall’Italia appena unita ha indirizzato irrimediabilmente le sorti di due aziende e dei relativi lavoratori: la Ansaldo di Genova e la napoletana Pietrarsa. La prima, ancora oggi, ha appalti in tutto il Paese e anche all’estero. La seconda è un museo delle Ferrovie dello Stato.
Il direttore: Alessandro Migliaccio
Giornalista e scrittore, autore di numerose inchieste nazionali sulla camorra, sugli sprechi di denaro pubblico, sulla corruzione, sulle truffe e sui disservizi in Italia. Ha lavorato dal 2005 al 2020 per “Le Iene” (Mediaset), affermandosi con una serie di servizi che hanno fatto scalpore tra cui quelli sulla compravendita di loculi nei cimiteri, sulla cosiddetta “terra dei fuochi” e sulla pedofilia nella Chiesa. Ha lavorato anche per “Piazza pulita” (La7), Il Tempo, Adnkronos, E-Polis, Napolipiù, Roma, Il Giornale di Napoli e Il Giornale di Sicilia. Ha scritto tre libri di inchiesta (“Paradossopoli – Napoli e l’arte di evadere le regole”, ed. Vertigo 2010, “Che s’addà fa’ pe’ murì – Affari e speculazioni sui morti a Napoli”, ed. Vertigo 2011 e “La crisi fa 90”, ed. Vertigo 2012) e un libro di poesie (“Le vie della vita”, ed. Ferraro 1999). Ha ricevuto una targa dall’Unione Cronisti Italiani come riconoscimento per il suo impegno costante e coraggioso come giornalista di inchiesta. Ha ricevuto anche il Premio L’Arcobaleno napoletano dedicato alle eccellenze della città partenopea. È stato vittima di un’aggressione fisica da parte del comandante della Polizia Municipale di Napoli nel 2008 in seguito ad un suo articolo di inchiesta ed è riuscito a registrare con una microcamera nascosta l’accaduto e a denunciarlo alle autorità devolvendo poi in beneficenza all’ospedale pediatrico Santobono di Napoli la somma ricevuta come risarcimento del danno subito.
Dal 2019 è il direttore di Quotidianonapoli.it