Dammi tre parole #SPECIALESANREMO
[ovvero: la settimana del FESTIVAL in tre definizioni (senza averne visto neanche un minuto)]:
Facile analizzare ciò che si vede con i propri occhi. Provate invece a giudicare ciò che si deve solo immaginare attraverso informazioni parziali, generate esclusivamente dal sentito-dire e dalle degenerazioni successive di “verità” incompetenti che si stratificano con migliaia di flogosi sfinteriche in forma verbale. Ah già, lo facciamo quasi tutti noi, quasi tutti i giorni. In realtà è solo il nome lungo della locuzione “social media”. Milioni di italiani svestono i propri panni di persone straordinarie [sic] ciascuna nella propria competenza, per indossare quelli di gente-che-non-capisce-un-cazzo-ma-parla-perché-tanto-che-male-c’è?.
Perché dunque sottrarsi al rituale canzonettistico annuale? Che differenza c’è tra uno che parla a cazzo del festival avendolo visto ed uno che parla a cazzo del festival avendo fatto altro (nello specifico il binge watching delle otto stagioni di dr. House)?
NAPOLETANO: una delle sfracellazioni testicolari più sanguinolente cui noi fruitori di Sanremo per interposta incompetenza abbiamo dovuto analizzare durante la kermesse, almeno alle nostre latitudini, è stata quella che ha visto frotte di neo-napoletanisti stracciarsi le vesti per il massacro della lingua napoletana da parte di un giovin virgulto tutto “jjò & bbrò” che si è permesso di trascrivere la sua canzone dialettale sfuggendo alle “regole” della lingua partenopea. Se al mondo esiste una categoria di intellettuali che con poco margine di errore può essere paragonata ai talebani, è quella dei napoletanisti. Ciò avviene per un fatto assolutamente naturale che è poi l’esatto opposto per cui i napoletanisti diventano degli integralisti pronti a farsi esplodere nelle aule della Accademia della Vrenna al grido di NONSITRONCANOLEFINALIDELLEPAROLENAPOLETANE: il napoletano è una lingua parlata da circa sei milioni di persone in Italia (fonte Accademia della Crusca, quella vera) ed altrettanti nel resto del mondo (fonte Wikimedia), ma alla lingua parlata da così tante persone si contrappone una letteratura, quindi una versione scritta, molto esigua rispetto a quella prodotta in proporzione per le lingue “canoniche”. La conseguenza è che, pur esistendo una grammatica napoletana più o meno riconosciuta, trovare univocità nel napoletano scritto è molto, ma molto, ma molto difficile. In diverse “chiacchierate” in cui mi sono trovato immerso in questi giorni sull’argomento, ho portato un esempio banalissimo: prendete tre persone di istruzione media (diciamo scuole superiori) una di Torino, una di Roma ed una di Palermo e dettategli un testo di dieci righe in italiano. Non esisterà la benché minima differenza tra il testo scritto da tutte e tre le persone perché le regole dell’italiano scritto sono ipercodificate e soprattutto, nel breve termine, non interpretabili. Ora prendete tre accademici napoletanisti di quelli bravi assai, di quelli che scrivono libri e elaborano testi e analizzano le evoluzioni del vernacolo. Dettate loro un testo di dieci righe in napoletano. Non ce ne saranno due che avranno scritto un solo rigo nello stesso modo. Si ammazzerebbero a colpi di elisioni, apocopi, troncature, raddoppiamenti fonosintattici e metafonesi. Si accettano scommesse.
Non appartengo alla categoria degli esperti di lingua napoletana ma posso considerarmi un testimone diretto di quel mondo avendo avuto una madre linguista e napoletanista con una dozzina di libri all’attivo, tra cui cose tipo l’Odissea tradotta in napoletano. Ho il massimo rispetto per coloro che tentano di codificare l’incodificabile, ma resto abbastanza convinto, alla luce delle cose che ho letto nel tempo e delle chiavi di lettura molto variabili che ho visto, che scrivere “correttamente” in napoletano è una delle cose più difficili del mondo. Ma poi, soprattutto se si parla di canzuncelle, chi cazzo se ne fotte se per scrivere “per” si usa la formula “pè”, “pe’” oppure “p’”?
Personalmente, la canzone nello specifico mi fa avutà ‘nu poco ‘o stommaco, ma ci sono milioni di persone, in maggioranza giovani, che si emozionano a sentirla e centinaia di addetti ai lavori che ne apprezzano doti che in tanti di noi non riescono a comprendere. E’ accaduto già in passato che gente come Pino Daniele, o per fare un esempio più calzante Nino D’Angelo, siano stati massacrati oltre il tollerabile per il loro modo di esprimersi, salvo poi essere sdoganati urbi et orbi con riconoscimenti accademici e lauree honoris causa. Imparare la lezione no, eh? Il punto è che diventare napoletanisti per un giorno is the new diventare virologi. A noi serve sentirci competenti nelle cose in cui non capiamo un cazzo. Tutto questo papiello appena scritto ne è un esempio plastico :))
MUSICA: si può parlare della musica di Sanremo senza averla ascoltata? Tendenzialmente sì, senza grosse difficoltà. Sanremo cambia ogni anno da più di settant’anni rimanendo perennemente uguale a sé stesso. Prendete l’analisi a caratteri generali di un qualsiasi giornalista specializzato di una qualunque delle settantaquattro edizioni e vi troverete l’articolo già scritto con la sola necessità di cambiare i nomi dei protagonisti.
Cuore e amore imperano incontrastati, c’è la quota musica “impegnata” con cantanti “dinicchia” (tuttattaccato) e cantautori con necessità di monetizzare e c’è il nuovo che guasta le giornate dei sedicenti puristi. Poi c’è il contorno fatto di vestiti, scandaletti, gaffes più o meno studiate, chiacchiericcio e rarissimi sussulti di novità vere (l’ultima è il fantasanremo che pure ha ormai quasi dieci anni). Non citeremo ancora una volta l’inflazionato adagio di Marcello Marchesi sui milioni di miliardi di mosche che non possono essersi sbagliate, ma resto abbastanza convinto che affrontare Sanremo con supponenza sia il modo migliore per essere confinati tra quelli che si sentono superiori e che non concludono un cazzo di niente… che poi è la storia della sinistra italiana degli ultimi quarant’anni. Quindi Viva Sanremo (viva due volte se riesci a non guardarlo per poterlo immaginare).
SENSODICOLPA: non avendo sentito le canzoni e non potendo dunque giudicare melodia, testo e sottotesto, valuteremo le ragioni reali per cui ha vinto Angelina Mango. D’altronde quando mai a Sanremo ha vinto la canzone o il cantante, invece del baraccone che li circondava? Sgombriamo il campo dal dubbio: Angelina Mango è brava, quindi come vincitrice è credibile; è giovane, quindi come vincitrice del festival a conduzione Amadeus è perfetta; è carina, che nello showbiz resta sempre fondamentale alla faccia dei falsi tentativi di non usare l’estetica come catalizzatore del talento per decretare il successo di un artista, e ancor più di un’artista; ma soprattutto dà la possibilità al popolo più ipocrita del cosmo di mondare un senso di colpa a caso, messo a disposizione dalla ragazza: rendere giustizia ad un cantante che per la narrazione basata sul senno di poi, tipicamente italica, non ha avuto il successo che meritava morendo giovane e per giunta mentre lavorava. In realtà Mango ha avuto esattamente il successo che meritava, semplicemente non aveva le caratteristiche né per diventare un cantante pop mainstream, né un cantautore da Olimpo dei Poeti. Insomma non era né Gianni Morandi, né De André. Era “solo” bravissimo con un paio di picchi di eccellenza assoluta. Quanto basta perché la sua morte prematura lo rendesse un mito prêt-à-porter e nel racconto nazional-popolare fosse il prototipo del “non abbastanza apprezzato” declinato ad ogni occasione, soprattutto da quelli che non lo cagavano de pezza in vita.
Quale migliore catarsi per il festival del sentimento nel paese dei sentimentalismi, (meglio se conditi di quel po’ di metafisico) se non quella del papà che “guarda da lassù” e che finalmente, per mano dell’erede, si ripiglia tutto chello ch’è ’o suojo?