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Vita dura per i cronisti giudiziari

Il feeling tra giornalisti e pm si è interrotto. Ma è un problema di libertà costituzionali

Parto da lontano. Nel fortunato best seller, scritto praticamente a due mani, ad una specifica domanda di Alessandro Sallusti sulle articolazioni del “sistema”, Luca Palamara, il magistrato (radiato) che ha svelato gli intrecci tra potere, politica, affari e magistratura dà questa risposta: “Magistrati e giornalisti – lo dico anche per esperienza personale – si usano a vicenda, all’interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni. Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall’editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica. È inevitabile che una frequentazione assidua porti ad una complicità professionale, a volte anche ad un’intimità personale più o meno clandestina che crea qualche imbarazzo ai colleghi. Ma c’è anche un livello superiore: io stesso ho avuto modo di partecipare a incontri riservati tra importanti direttori e procuratori impegnati su inchieste molto delicate”.

Magistrati e giornalisti pappa e ciccia (a Napoli si usa un’espressione molto più colorita). È stato così, dal 1992 fino agli “agguati” giudiziari organizzati (Palamara li ricostruisce puntigliosamente) contro Berlusconi e Renzi. Oggi qualcosa è cambiato. O sta cambiando. Quel connubio così innaturale e, ammettiamolo, non sempre esaltante sotto l’aspetto deontologico per noi giornalisti, svelato e messo a nudo dal reietto Palamara, è saltato. In un sistema democratico è giusto che sia così. Ma da un eccesso si è passati ad un altro. Ora i pm, o per lo meno alcuni di essi, non parlano più. Hanno scoperto la presunzione di innocenza, si trincerano dietro ad essa e se ne stanno zitti. O parlano con i rappresentanti della stampa a babbo morto, quando gli fa comodo. Continuano ovviamente ad indagare, ad arrestare (con l’assenso dei gip), anche ad “orologeria”, continuano meritoriamente ad indagare contro le mafie, contro la corruzione, ma anche a procedere con inchieste che perpetuano il sospetto di interferenze strumentali con la vita politica. E queste attività che fino a qualche tempo fa, con la complicità della stampa, erano ghiotte occasioni per favorire le loro inchieste e le loro carriere ora procedono al buio. Adesso i magistrati (i campani in prima fila) forniscono o fanno fornire notizie con il contagocce, in ritardo, parziali, lacunose. Niente nomi, arresti secretati, fatti sanguinosi di cronaca rivelati con giorni e giorni di ritardo, come è avvenuto a Napoli, dove la Questura, recentemente, ha dato notizie di un omicidio dieci giorni dopo che era avvenuto. O come è avvenuto con le reticenze su un odioso femminicidio a Grumo Nevano. Per non parlare di una circolare della Divisione Anticrimine che ha vietato agli agenti di parlare con i giornalisti. Sic et simpliciter. Da partner ad appestati. Questa comunicazione istituzionale nouvelle vague si concretizza, peraltro, attraverso surreali conferenze-stampa, orchestrate da vertici delle forze dell’ordine balbettanti che si trincerano sistematicamente dietro la delega del procuratore della Repubblica, che citano, e che si concludono con autentiche lezioncine di procedura penale con il richiamo esplicito al principio della presunzione di innocenza e addirittura alle norme che regolano il decreto di fermo e il giudizio di convalida. Imbarazzante.
Ora che qualche giornalista possa essere non proprio esperto in procedura penale ci sta. Ma sono mosche rare. I cronisti giudiziari, se non altro per esperienza acquisita sul campo, queste regole basilari le conoscono. Magari è il caso che approfondiscano le norme sul testo unico della deontologia professionale, che ci impongono misura, pertinenza e continenza. Questo sì. È mortificante per tutti che si sia giunti a questo stato di fatto. Favorito sicuramente dal decreto della Cartabia sulla presunzione di innocenza del 2021 (recepiva una direttiva Ue), ma portato alle estreme conseguenze con un’applicazione che trascura l’interesse costituzionalmente protetto della collettività ad essere informata. Insomma ci stanno imbavagliando. La verità è che al di là delle vergognose trame rivelate da Palamara, sulle quali, complice forse la pandemia, è calato il silenzio e che imporrebbero una riforma seria della giustizia e non quella all’acqua di rose in cantiere, il bilanciamento tra il segreto istruttorio, il rispetto della privacy e il diritto di cronaca è un esercizio impervio, quasi ai confini dell’impossibile.

Esiste un modo, una via di mezzo tra l’arroccamento della magistratura, il passaggio di veline “pedagogiche” e la sfrenata ossessione di noi giornalisti di voler anticipare i processi in tv, di pubblicare tutto, intercettazioni strumentali comprese, talvolta senza verifiche, approfondimenti e rispetto per l’onorabilità delle persone? Il buon senso ci suggerirebbe una risposta positiva. La realtà, purtroppo, ci induce al pessimismo.
Tutta questa materia è stata oggetto, mercoledì scorso, di un interessante convegno (“Cronaca giudiziaria tra privacy, segreto investigativo e diritto di cronaca”) organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Campania e dall’Associazione giornalisti vesuviani “Carmine Alboretti”. Sono intervenuti Salvatore Prisco, Franco Roberti, Michele Del Gaudio, Goffredo Buccini, Giuseppe Crimaldi, Mary Liguori e Dario Sautto. Ha moderato Carlo Verna.

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